25 gennaio 2004

MOBBING

La Legge della Regione Lazio dell'11 luglio 2002, n. 16 recante Disposizioni per prevenire e contrastare il mobbing nei luoghi di lavoro è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza della Corte Costituzionale n, 359/2003, e dunque cancellata dal nostro ordinamento giuridico.

Quelle che seguono sono le considerazioni in diritto della Corte.
1. Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna la legge della Regione Lazio 11 luglio 2002, n.16 (Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro), perché avrebbe leso la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile nonché di ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali in contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettere l) e g), della Costituzione.
Inoltre il ricorrente sostiene che la disciplina del mobbing rientra nella tutela della salute e nella tutela e sicurezza del lavoro, materie entrambe oggetto di legislazione concorrente, e che con la legge impugnata la Regione Lazio ha fissato essa stessa i principi fondamentali senza attendere che fosse lo Stato a stabilirli. Censure specifiche il ricorrente muove agli articoli 2, 4, 6 e 7 della legge suindicata, sempre per contrasto con i citati parametri costituzionali.

2. Si deve, in primo luogo, ritenere che l'impugnazione concerna l'intera legge, non soltanto perché nelle conclusioni se ne chiede la dichiarazione di illegittimità senza limitare tale richiesta alle singole disposizioni di cui sopra, ma anche e soprattutto perché nella parte espositiva e motiva del ricorso espressamente si precisa che gli specifici vizi denunciati non possono non estendersi all'intero corpo normativo.
Ciò, tuttavia, non rende inammissibile l'impugnazione, perché l'applicazione del principio secondo cui la denuncia di illegittimità costituzionale non può appuntarsi contro un provvedimento legislativo nel suo complesso – più volte affermato da questa Corte (v., per tutte, le sentenze n. 213 e n. 94 del 2003, n. 261 del 1995 e n. 85 del 1990) – presuppone che la mancata specificazione delle norme censurate e l'eventuale correlativa carenza dell'indicazione delle ragioni dell'evocazione dei parametri costituzionali determinino una genericità delle censure tale da non consentire l'individuazione della questione oggetto dello scrutinio di costituzionalità.
Nel caso in esame, invece, così come si è verificato in altre ipotesi di impugnative in via principale riferite ad interi complessi normativi (v. sentenze n. 438 del 2002, n. 140 del 1976 e n. 154 del 1972), le caratteristiche di genericità e quindi di incertezza non si ravvisano. Il ricorso, infatti, riguarda una legge avente un contenuto specifico ed omogeneo e si fonda essenzialmente sulla denuncia di illegittimità delle norme dell'art. 2, contenente la definizione dei comportamenti costituenti mobbing, intorno alla quale ruotano tutte le altre disposizioni.

3. Una volta individuato l'oggetto della questione di costituzionalità e conseguentemente superati i dubbi che potevano insorgere sulla sua ammissibilità, si deve premettere che alcuni profili generali e preliminari delle difese di entrambe le parti sono da disattendere.
Questa Corte ha più volte affermato che la mancanza di un'espressa, specifica disciplina statale contenente i principi fondamentali di una determinata materia di competenza legislativa concorrente non impedisce alle Regioni di esercitare i propri poteri, in quanto in ogni caso tali principi possono e devono essere desunti dalla preesistente legislazione statale (v. ex plurimis sentenze n. 201 e n. 196 del 2003 nonché n. 282 del 2002). Ciò implica che il carattere di provvisorietà rivendicato dalla stessa legge regionale nell'art. 1 non è idoneo a renderla legittima indipendentemente dal vaglio del suo contenuto (v., da ultimo, sentenza n. 307 del 2003).
4.1. Si può ora procedere all'esame nel merito della questione.
E' noto che la sociologia ha mutuato il termine mobbing da una branca dell'etologia per designare un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. Ciò implica l'esistenza di uno o più soggetti attivi cui i suindicati comportamenti siano ascrivibili e di un soggetto passivo che di tali comportamenti sia destinatario e vittima.
Per quanto concerne i soggetti attivi vengono in evidenza le condotte – commissive o, in ipotesi, omissive – che possono estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri sia in semplici comportamenti materiali aventi in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico, e tuttavia di acquisire comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall'effetto e talvolta, secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione e di emarginazione.
Per quanto riguarda il soggetto passivo si pongono principalmente problemi di individuazione e valutazione delle conseguenze dei comportamenti medesimi.
Tali conseguenze, secondo le attuali acquisizioni, possono essere di ordine diverso. Infatti, la serie di condotte in cui dal lato attivo si concretizza il mobbing può determinare: l'insorgenza nel destinatario di disturbi di vario tipo e, a volte, di patologie psicotiche, complessivamente indicati come sindrome da stress postraumatico; il compimento, da parte del soggetto passivo medesimo o nei suoi confronti, di atti che portano alla cessazione del rapporto di lavoro (rispettivamente: dimissioni o licenziamento), anche indipendentemente dall'esistenza dei disturbi di tipo psicologico o medico di cui si è detto sopra; l'adozione, da parte della vittima, di altre condotte giuridicamente rilevanti, ed eventualmente illecite, come reazione alla persecuzione ed emarginazione.
4.2. Da quanto detto emerge che la normativa in materia di mobbing può avere un triplice oggetto, in quanto può riguardare la prevenzione e repressione dei comportamenti dei soggetti attivi del fenomeno, le misure di sostegno psicologico e, se del caso, l'individuazione delle procedure per accedere alle terapie di tipo medico di cui la vittima può avere bisogno ed il regime degli atti o comportamenti posti in essere da quest'ultima come reazione a quanto patito.

5.1. Pur nell'attuale assenza nel nostro ordinamento giuridico di una disciplina a livello di normazione primaria avente ad oggetto specifico il mobbing, i giudici sono stati chiamati più volte a pronunciarsi in controversie in cui tale fenomeno entrava a volte come fonte della pretesa al risarcimento del danno biologico – per patologie, soprattutto psichiche, che si affermavano causate da comportamenti vessatori e persecutori subiti nell'ambiente di lavoro da parte del datore di lavoro o di uno o più colleghi – a volte come elemento di valutazione di atti risolutivi del rapporto di lavoro, la cui qualificazione si faceva dipendere dall'accertamento di determinate condotte integranti il fenomeno in questione.
La giurisprudenza ha, prevalentemente, ricondotto le concrete fattispecie di mobbing nella previsione dell'articolo 2087 cod. civ. che, sotto la rubrica «tutela delle condizioni di lavoro», contiene il precetto secondo cui «l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure ... necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro», e che è stato inteso come fonte di responsabilità anche contrattuale del datore di lavoro.
5.2. Le considerazioni svolte permettono di affermare, riguardo ai parametri costituzionali evocati, che la disciplina del mobbing, valutata nella sua complessità e sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, rientra nell'ordinamento civile [art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione] e, comunque, non può non mirare a salvaguardare sul luogo di lavoro la dignità ed i diritti fondamentali del lavoratore (artt. 2 e 3, primo comma, della Costituzione).
Per quanto concerne l'incidenza che gli atti vessatori possono avere sulla salute fisica (malattie psicosomatiche) e psichica del lavoratore (disturbi dell'umore, patologie gravi), la disciplina che tali conseguenze considera rientra nella tutela e sicurezza del lavoro nonché nella tutela della salute, cui la prima si ricollega, quale che sia l'ampiezza che le si debba attribuire (art. 117, terzo comma, della Costituzione). Di ciò si ha conferma negli atti interni e comunitari che finora si sono occupati del fenomeno, pur in assenza, come si è detto, di una specifica disciplina a livello di normazione di rango primario.
In particolare, per quel che riguarda gli atti interni statali, l'inserimento del mobbing nelle suddette materie trova conferma sia nel punto 4.9 del d.P.R. 22 maggio 2003, con il quale è stato approvato il Piano sanitario nazionale 2003-2005, sia nel punto BS11 della delibera, sempre del 22 maggio 2003, contenente l'Accordo tra il Ministro della salute, le Regioni e le Province autonome sul «bando di ricerca finalizzata per l'anno 2003 per i progetti ex art. 12-bis del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502».
Quanto, poi, agli atti comunitari è opportuno osservare che la risoluzione del Parlamento europeo n. AS-0283/2001 del 21 settembre 2001, avente ad oggetto “Mobbing sul posto di lavoro”, al punto 13 esorta la Commissione ad «esaminare la possibilità di chiarificare o estendere il campo di applicazione della direttiva quadro per la salute e la sicurezza sul lavoro oppure di elaborare una nuova direttiva quadro, come strumento giuridico per combattere il fenomeno delle molestie...».

6. La legge regionale impugnata deve ora essere valutata alla luce delle premesse generali esposte.
L'articolo 1 dichiara al comma 1: «la Regione, in attuazione dei principi costituzionali enunciati negli articoli 2, 3, 4, 32, 35, 37 della Costituzione, nel rispetto della normativa statale vigente e nelle more dell'emanazione di una disciplina organica dello Stato in materia, interviene con la presente legge al fine di prevenire e contrastare l'insorgenza e la diffusione del fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro»; al comma 2: «la Regione individua nella crescita e nello sviluppo di una cultura del rispetto dei diritti dei lavoratori da parte di tutte le componenti del mondo del lavoro gli elementi fondamentali per il raggiungimento delle finalità indicate al comma 1 e per un'ottimale utilizzazione delle risorse umane nei luoghi di lavoro».
L'articolo 2, che reca la rubrica «definizione del mobbing», stabilisce al comma 1 che «ai fini della presente legge per mobbing s'intendono atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale».
Al comma 2 l'articolo 2 precisa: «gli atti ed i comportamenti di cui al comma 1 possono consistere in: a) pressioni o molestie psicologiche; b) calunnie sistematiche; c) maltrattamenti verbali ed offese personali; d) minacce od atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente od avvilire, anche in forma velata ed indiretta; e) critiche immotivate ed atteggiamenti ostili; f) delegittimazione dell'immagine, anche di fronte a colleghi ed a soggetti estranei all'impresa, ente od amministrazione; g) esclusione od immotivata marginalizzazione dell'attività lavorativa ovvero svuotamento delle mansioni; h) attribuzione di compiti esorbitanti od eccessivi, e comunque idonei a provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore; i) attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto; l) impedimento sistematico ed immotivato all'accesso a notizie ed informazioni inerenti l'ordinaria attività di lavoro; m) marginalizzazione immotivata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e di aggiornamento professionale; n) esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti del lavoratore, idonee a produrre danni o seri disagi; o) atti vessatori correlati alla sfera privata del lavoratore, consistenti in discriminazioni sessuali, di razza, di lingua e di religione».
L'articolo 3 prevede la possibilità di iniziative da parte degli organi paritetici di cui all'articolo 20 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626 (Attuazione della direttiva 89/391/CEE, della direttiva 89/654/CEE, della direttiva 89/655/CEE, della direttiva 89/656/CEE, della direttiva 90/269/CEE, della direttiva 90/270/CEE, della direttiva 90/394/CEE, della direttiva 90/679/CEE, della direttiva 93/88/CEE, della direttiva 95/63/CE, della direttiva 97/42/CE, della direttiva 98/24/CE, della direttiva 99/38/CE e della direttiva 99/92/CE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro), dirette a migliorare la sicurezza e la salute dei lavoratori.
L'articolo 4 stabilisce al comma 1 che le aziende sanitarie locali istituiscono o promuovono l'istituzione, anche mediante convenzioni con associazioni senza fini di lucro, di appositi centri opportunamente dislocati sul territorio in relazione ai livelli occupazionali esistenti nell'ambito pubblico e privato, che forniscano adeguata assistenza al lavoratore oggetto di discriminazioni. Tali centri, nel caso in cui accertino l'effettiva esistenza di elementi atti a configurare le fattispecie di cui all'articolo 2, assumono, entro sessanta giorni dalla richiesta del lavoratore, iniziative a tutela del medesimo.
Le suddette iniziative sono dirette o a tutelare il lavoratore sul piano giuridico, fornendogli una consulenza e segnalando «al datore di lavoro, pubblico o privato, la situazione di disagio del lavoratore e invitandolo ad assumere i provvedimenti idonei a rimuoverne le cause», oppure mirano all'assistenza al lavoratore fornendogli un primo sostegno psicologico e, se riscontrano «la probabile avvenuta insorgenza di stati patologici determinati o aggravati dal mobbing, indirizzano il lavoratore, con il suo consenso, al servizio sanitario specialistico».
Del centro anti-mobbing devono far parte, insieme ad un assistente sociale e ad un sociologo, un avvocato esperto in diritto del lavoro, un medico specialista in igiene pubblica, uno psicologo o psicoterapeuta.
L'articolo 5 prevede iniziative da parte degli enti locali riguardanti l'informazione sul mobbing e la prevenzione della sua insorgenza, nonché la possibilità di convenire in sede di contrattazione collettiva per il comparto Regioni enti locali misure idonee al conseguimento degli scopi suindicati. L'articolo 6 istituisce un Osservatorio regionale per lo studio ed il monitoraggio del fenomeno mobbing ed al quale i lavoratori che se ne ritengano vittime possono rivolgersi per un'audizione qualora non abbiano ottenuto soddisfazione dal centro di cui all'art. 4.
L'articolo 7, infine, determina gli stanziamenti in favore delle ASL per l'istituzione degli Osservatori e per le iniziative degli enti locali.

7.— Alla luce delle premesse esposte, la legge regionale censurata è costituzionalmente illegittima.
L'articolo 2 detta, al comma 1, la definizione del mobbing, mentre il comma 2 contiene un'esemplificazione di fattispecie in cui può concretarsi il comportamento vessatorio nei confronti del lavoratore dipendente. Così facendo, il legislatore regionale ha ritenuto anzitutto di poter fornire autonomamente la nozione giuridica di un fenomeno che, già individuato da altre branche delle scienze sociali, non è tuttavia ignorato nel nostro ordinamento statale, pur non essendo ancora emerso come oggetto di una disciplina specifica.
Se poi dalla definizione generale si passa all'esame delle esemplificazioni contenute nel comma 2 dell'art. 2, si deve constatare che alcune di esse costituiscono, in linea di astratta previsione, fattispecie penalmente rilevanti [v., per esempio, lettere c) e d)], altre integrano ipotesi tipiche di violazione di obblighi del datore di lavoro [c.d. demansionamento, v. lettere g) ed i)].
Qualora poi si volga l'attenzione dagli autori del mobbing alla loro vittima, si rileva che la legge regionale in esame considera le conseguenze dei comportamenti suindicati sotto il profilo del danno subito dal lavoratore e, quindi, come elemento di fattispecie risarcitorie.
La difesa della Regione Lazio ha sostenuto che in realtà la legge ha contenuto più che altro descrittivo e modestamente prescrittivo, limitandosi esclusivamente a stabilire l'approntamento di strutture e procedure per lo studio del fenomeno che ne costituisce oggetto.
La tesi non può essere accolta, né ha rilievo la limitazione contenuta nel comma 1 dell'art. 2 secondo cui la definizione del mobbing opera solo ai fini della legge stessa. Questa, infatti, all'art. 4, comma 2, lettera d), prevede una vera e propria diffida, anche se tale termine non ricorre nella prescrizione che il centro anti-mobbing – in ipotesi anche una mera associazione privata – rivolge al datore di lavoro perché esegua gli obblighi relativi alla tutela della personalità del dipendente e della sua salute nascenti dal rapporto.
La previsione di tale diffida vale a configurare un elemento dell'eventuale inadempimento del datore di lavoro e rientra, quindi, nella materia “ordinamento civile”, oltre ad essere in contrasto anche con la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali [art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione], qualora il datore di lavoro sia una pubblica amministrazione o un ente pubblico nazionale.
Per altro verso, l'art. 4, comma 2, lettera c), della legge in questione dà facoltà al centro anti-mobbing (della cui possibile natura già si è detto) di formulare una diagnosi e di avviare il lavoratore, con il suo consenso, al servizio sanitario specialistico, con ciò incidendo sulla disciplina di profili fondamentali della tutela della salute e della tutela e sicurezza del lavoro.
In realtà l'intera legge si fonda sul presupposto – da ritenere in contrasto con l'assetto costituzionale dei rapporti Stato-Regioni – secondo cui queste ultime, in assenza di una specifica disciplina di un determinato fenomeno emergente nella vita sociale, abbiano in via provvisoria poteri illimitati di legiferare.
D'altra parte, si è già visto come il mobbing non sia fenomeno esclusivamente italiano, ignoto agli organi comunitari; va evidenziato, infatti, che gli stessi atti comunitari sopra citati portano ad escludere che esso, nei suoi aspetti generali e per quanto riguarda i principi fondamentali, possa essere oggetto di discipline territorialmente differenziate. La citata risoluzione del Parlamento europeo AS-0283/2001, infatti, al punto 10 «esorta gli Stati membri (…) a verificare e ad uniformare la definizione della fattispecie del mobbing».
Ciò non esclude che le Regioni possano intervenire, con propri atti normativi, anche con misure di sostegno idonee a studiare il fenomeno in tutti i suoi profili e a prevenirlo o limitarlo nelle sue conseguenze. Deve, viceversa, ritenersi certamente precluso alle Regioni di intervenire, in ambiti di potestà normativa concorrente, dettando norme che vanno ad incidere sul terreno dei principi fondamentali, che è quanto si è verificato nel caso di specie. La legge regionale impugnata, contenendo nell'art. 2 una definizione generale del fenomeno mobbing che costituisce il fondamento di tutte le altre singole disposizioni, è evidentemente viziata da illegittimità costituzionale. Siffatta illegittimità si riverbera, dalla citata norma definitoria, sull'intero testo legislativo.

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