13 agosto 2005

Memorie...

Ricordi ed esperienze dei topi
Aristotele era convinto che solo gli esseri umani possedessero ricordi associativi

Il processo di formazione della memoria è oggetto d'interesse da parte degli studiosi e degli scienziati da molto tempo. Già nel 350 avanti Cristo, Aristotele scriveva che li processo aveva due forme, la familiarità e il ricordo, la seconda delle quali era considerata una condizione puramente umana. Ora alcuni ricercatori dell'Università di Boston hanno scoperto che non è così.Nel caso della familiarità, le esperienze precedenti non vengono richiamate alla mente: per esempio, incontrando una persona già conosciuta, la si riconosce senza dover ricordare i dettagli degli incontri precedenti. I ricordi, invece, vengono innescati quando viene raggiunta una certa soglia di informazione associativa e contestuale. Un team di neurobiologi, guidato da Norbert Fortin, ha dimostrato che i topi sfruttano il ricordo di un'esperienza precedente quando devono riconoscere oggetti che avevano incontrato di recente. Inoltre, i ricercatori hanno scoperto che la capacità dei roditori di esibire memorie di questo tipo dipende dalla struttura cerebrale chiamata ippocampo, la stessa che si ritiene coinvolta nei ricordi degli esseri umani. Anche se studi precedenti sull'attività dell'ippocampo hanno indicato che quest'area del cervello è fondamentale per la memoria, il suo ruolo non è ancora del tutto chiarito: Fortin e colleghi hanno studiato l'attività dell'ippocampo nei cervelli dei topi nella speranza di determinarlo meglio. I risultati dello studio sono stati pubblicati sul numero del 9 settembre 2004 della rivista "Nature".




Falsi ricordi
Spesso la memoria non distingue fra percezioni effettive e immaginazione

I falsi ricordi sono spesso oggetto di controversie fra gli scienziati, e la discussione riguarda anche la credibilità dei racconti dei testimoni durante un processo: secondo alcuni, infatti, si tratterebbe di memorie represse che si riaffacciano in superficie anni dopo un evento traumatico. Poiché la memoria è imperfetta anche in circostanze ordinarie - la formazione, l’immagazzinamento e il recupero dei ricordi dipendono da molti fattori che possono influenzare questi processi -, è improbabile che una risposta univoca possa mettere a tacere queste controversie. Eppure, un gruppo multidisciplinare di ricercatori della Northwestern University è riuscito a scoprire nuove prove sull’esistenza dei falsi ricordi e di come si formano. Lo studio, descritto in un articolo pubblicato sulla rivista “Psychological Science”, sfrutta le tecniche di risonanza magnetica per individuare come si forma il ricordo di qualcosa che non è mai accaduto. “Abbiamo misurato l’attività cerebrale - spiega lo psicologo Kenneth A. Paller - di persone che osservavano la foto di un oggetto o immaginavano altri oggetti che chiedevamo loro di visualizzare. Più tardi abbiamo chiesto ai partecipanti di discriminare fra quello che avevano visto realmente e quello che si erano immaginati”. Molte delle figure visive che ai soggetti era stato chiesto di immaginarsi, in seguito sono state ricordate erroneamente come effettivamente osservate. “Riteniamo - afferma Paller - che le parti del cervello usate per percepire realmente un oggetto e per immaginarlo si sovrappongano. Pertanto, un evento vividamente immaginato può lasciare una traccia nel cervello molto simile a quella di un evento realmente sperimentato. Quando i ricordi vengono immagazzinati, che si tratti di oggetti percepiti o immaginati, vengono coinvolte alcune delle stesse aree cerebrali”.


Il tè migliora la memoria
La bevanda potrebbe aiutare a rallentare il morbo di Alzheimer

Bere regolarmente una tazza di tè può aiutare a migliorare le proprie capacità mnemoniche. I risultati di test di laboratorio effettuati da un gruppo di ricercatori dell'Università di Newcastle upon Tyne hanno rivelato che il tè verde e il tè nero inibiscono l'attività di determinati enzimi nel cervello che sono associati alla memoria. Lo studio, pubblicato sulla rivista "Phytotherapy Research", potrebbe portare allo sviluppo di un nuovo trattamento per il morbo di Alzheimer, la forma di demenza che colpisce milioni di persone in tutto il mondo. I ricercatori hanno studiato le proprietà del caffé, del tè verde e del tè nero (il tradizionale tè inglese, derivante dalla stessa pianta del tè verde, Camellia sinensis, ma fermentato). Hanno scoperto che, a differenza del caffé, i due tipi di tè inibiscono l'attività dell'enzima acetilcolinesterasi (AchE), associato con lo sviluppo del morbo di Alzheimer, che disgrega il messaggero chimico (o neurotrasmettitore) acetilcolina. Inoltre, sia il tè verde che il tè nero ostacolano l'attività dell'enzima butirrilcolinesterasi (BuChE), scoperto nei depositi di proteine che si formano nel cervello dei pazienti di Alzheimer. Il tè verde, inoltre, fa anche di più: ostacola l'attività di beta-secretasi, che svolge un ruolo nella produzione di questi depositi di proteine. I suoi effetti inibitori durano per un'intera settimana, mentre quelli del tè nero permangono per un solo giorno.

Edward J. Okello et al, "In vitro Anti-beta-secretase and dual anti-cholinesterase activities of Camellia sinensis L. (tea) relevant to treatment of dementia". Phytotherapy Research, 18 624-627 (2004).




Valanghe neuronali
Le cellule responsabili della memoria si attivano a cascata

Incontrare un amico che non si vede da anni può suscitare un'improvvisa ondata di piacevoli ricordi. Studi recenti suggeriscono che queste "valanghe" di ricordi nel cervello possono in effetti aiutare ad conservare la memoria. In una ricerca pubblicata l'anno scorso, alcuni scienziati dei National Institutes of Health (NIH) avevano posizionato campioni di tessuto cerebrale di ratto su una griglia di microelettrodi e avevano scoperto che le cellule del cervello si attivavano l'un l'altra, in una cascata chiamata "valanga neuronale". Nuovi modelli al computer suggeriscono ora che queste "valanghe cerebrali" sarebbero utilissime per l'immagazzinamento delle informazioni. Se così fosse, determinati trattamenti neurochimici potrebbero un giorno migliorare la vita delle persone con problemi di memoria. Lo studio è stato descritto in un articolo pubblicato sul numero del 4 febbraio della rivista "Physical Review Letters". Alla ricerca ha collaborato il biofisico John Beggs dell'istituto di biocomplessità dell'Università dell'Indiana di Bloomington. La biocomplessità è un campo interdisciplinare che coinvolge la fisica, la chimica, l'informatica, la matematica e le scienze della vita.



La fMRI come macchina della verità
La risonanza magnetica funzionale potrebbe sostituire il poligrafo

Quando una persona dice una bugia, utilizza parti del cervello diverse da quando dice la verità, e questi cambiamenti cerebrali possono essere misurati con la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI). Lo sostiene uno studio presentato al convegno annuale della Radiological Society of North America. I risultati suggeriscono che un giorno la fMRI potrebbe essere usata come macchina della verità, con risultati più precisi del poligrafo. “Misurando con la fMRI l’attività delle aree cerebrali associate alle bugie - spiega l’autore principale dello studio, Scott H. Faro della Temple University - potremmo determinare se il soggetto sta dicendo la verità”. Faro e colleghi hanno effettuato un esperimento con undici volontari. A sei di essi è stato chiesto di sparare con una pistola giocattolo, mentre agli altri cinque no. Tutti, però, dovevano affermare di non aver sparato. I ricercatori hanno esaminato i singoli individui con la fMRI, e contemporaneamente con il normale poligrafo che viene usato come macchina della verità. Il poligrafo misura tre risposte fisiologiche: il respiro, la pressione del sangue e la capacità della pelle di condurre elettricità, che aumenta con la sudorazione. In tutti i casi, sia il poligrafo sia la fMRI sono riusciti a distinguere le risposte veritiere da quelle false. Durante le bugie, la fMRI ha mostrato l’attivazione di diverse aree cerebrali nel lobo frontale (mediale inferiore e pre-centrale), temporale (ippocampo e temporale medio) e limbico (cingolato anteriore e posteriore). Nel caso delle risposte vere, la fMRI ha invece mostrato attivazione nel lobo frontale (inferiore e mediale), temporale (inferiore) e nel giro cingolato. Nel complesso, quando un soggetto diceva una bugia si attivavano più aree cerebrali rispetto a quando diceva la verità.Poiché le risposte fisiologiche possono variare da individuo a individuo e, in alcuni casi, essere regolate, il poligrafo non viene considerato uno strumento del tutto affidabile per individuare una bugia. Secondo Faro, tuttavia, è ancora troppo presto per affermare se la fMRI possa essere “ingannata” nello stesso modo.