6 dicembre 2005

Da "Occhio Clinico"

Guerra e salute: «I medici non facciano politica»
Angelo Stefanini
Dipartimento di Medicina e sanità pubblica, Università di Bologna Osservatorio italiano sulla salute globale

Ha fatto notizia la presa di posizione di Lancet (2005; 366: 868) che invita «rispettosamente» il proprio editore, il gruppo olandese Reed Elsevier, implicato nei profitti del commercio mondiale delle armi, a scegliere esplicitamente tra l’etica della salute e la guerra, rifiutando in particolare il coinvolgimento con il peggior genere di tecnologie militari, come le cosiddette bombe a grappolo che uccidono indiscriminatamente civili indifesi.
In opposta direzione va la risposta che il governo italiano ha dato alla «Lettera aperta dei medici italiani contro la guerra», sottoscritta da oltre 1.500 professionisti alla vigilia dell’invasione dell’Iraq nel febbraio 2003 (Stefanini 2003). Di fronte alla denuncia delle possibili conseguenze sulla salute e la vita delle popolazioni irachene, il rappresentante del governo sosteneva: «Non si tratta di biasimare certe posizioni, ma di non far passare per scientifica una mozione di matrice politica». E concludeva affermando come «il mondo scientifico debba mantenersi estraneo a problemi che per la loro valenza non possono che essere affrontati dai supremi organi elettivi del nostro paese ai quali ci rimettiamo con la piena fiducia che ogni cittadino dovrebbe avere nei riguardi delle Istituzioni».
Il rifiuto della guerra deve o non fare parte dell’agenda professionale di chi si occupa per mestiere della promozione e della difesa della salute e della prevenzione di malattie, disabilità e morte? Il Global Burden of Disease Study prevede che nell’anno 2020 la guerra occuperà una delle prime 10 posizioni tra le cause principali di DALY (Disability Adjusted Life Years) perduti. Per ogni soldato caduto nelle guerre moderne, dalle 2 alle 13 persone sono ferite, un civile perde la vita direttamente per cause violente e altri otto muoiono per carenza di cibo, acqua pulita, alloggio, supporto sociale e assistenza sanitaria. Metà dei morti sono bambini. Molte persone che sopravvivono a un conflitto rimangono fisicamente o psicologicamente segnate per sempre, a causa di violenze subite sia durante sia nell’immediato seguito di un conflitto. Una guerra produce enormi sconvolgimenti sociali ed economici: intere popolazioni devono abbandonare le proprie case; infrastrutture, reti sociali ed ecosistemi vengono distrutti e i diritti umani vengono calpestati; si instaurano sovraffollamento, malnutrizione ed esposizione a traumi, malattie epidemiche e violenze sessuali. L’attuale pandemia di AIDS è anche una conseguenza della rapida diffusione dell’infezione attraverso violenze sessuali di massa compiute durante guerre civili. Particolarmente vulnerabili sono i rifugiati e gli sfollati: i tassi di mortalità di questi ultimi durante i recenti conflitti nel continente africano sono stati da quattro a settanta volte superiori a quelli basali della stessa popolazione.
Il sistema sanitario di un paese viene danneggiato dalla guerra interrompendo, nel breve termine, la fornitura di servizi sanitari essenziali e, nel lungo termine, accrescendo il costo e la complessità del ripristino della salute della popolazione ai livelli precedenti l’inizio del conflitto. Oltre ai servizi di assistenza, a maggior ragione le attività di prevenzione e profilassi (vaccinazioni) vengono gravemente compromesse (OMS 2005): nel 1994 in Bosnia Erzegovina meno del 35 per cento dei bambini furono vaccinati, rispetto al 95 per cento del periodo precedente l’inizio delle ostilità.
La guerra è allora da annoverarsi tra i determinanti di malattia che rappresentano l’oggetto specifico dell’intervento della medicina preventiva e della sanità pubblica e, d’altronde, già nel 1981, la World Health Assembly, assemblea plenaria annuale di tutti gli stati membri dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), sottolineava come il ruolo degli operatori sanitari nel promuovere e preservare la pace rappresenti un fattore significativo per raggiungere la salute per tutti. Inoltre, associazioni professionali e riviste mediche di prestigio internazionale hanno preso posizioni esplicite sull’impatto della guerra sulla salute. L’esempio di Lancet è solo l’ultimo.
«Le riviste scientifiche devono mischiare medicina e politica?». A questa domanda un editoriale del BMJ risponde in modo esplicito: «La medicina non può esistere nel vuoto politico». Già oltre 150 anni fa il grande patologo e medico di sanità pubblica della Germania di Bismark, Rudolf Wirchov, non aveva dubbi: «La medicina è una scienza sociale e la politica è medicina su larga scala!».
La guerra può essere assimilata a una malattia che ha fattori di rischio che vanno eliminati (prevenzione primordiale) o modificati (prevenzione primaria) e sui cui effetti si deve intervenire precocemente (prevenzione secondaria) e i professionisti sanitari potrebbero svolgervi un ruolo importante, per esempio partecipando alla sorveglianza e documentazione degli effetti che le guerre hanno sulla salute e dei fattori che le provocano; impegnandosi nell’educazione e nella divulgazione di tali effetti, promuovendo e sostenendo azioni che prevengano la guerra e contro il commercio internazionale delle armi.
L’Osservatorio italiano sulla salute globale (OISG) cerca di affrontare il discorso della salute in una dimensione in cui povertà, diritti umani, guerra vengono inseriti in quel quadro di giustizia universale su cui si fonda la professione medica. Oltre a pubblicare un rapporto annuale (OISG 2004), l’OISG sta introducendo corsi elettivi di salute globale in varie università, nella convinzione che le strutture che alimentano l’ingiustizia sociale ed economica, e che in molti casi sono alla base dell’odio e delle guerre, rappresentano la maggiore minaccia alla salute pubblica.

Bibliografia
- Stefanini A. Lettera dei medici italiani contro la guerra. Editrice missionaria, 2003. http://www.emi.it/articoli.asp?id=134; http://www.emi.it/articoli.asp?id=137
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