Le conseguenze psicologiche dell’emergenza COVID-19 sul personale sanitario
Nei giorni scorsi, sulle riviste scientifiche sono apparse le prime
riflessioni, linee guida e analisi dedicate alla condizione psicologica
del personale sanitario durante la pandemia: “Gestire le sfide alla
salute mentale ai tempi della COVID-19”, titolava, per primo, un editoriale del British Medical Journal
scritto da Neil Greenberg, docente di difesa della salute mentale del
King’s College di Londra e da alcuni colleghi psichiatri. Lancet ha raccolto alcune lettere di medici italiani. Epicentro, il sito dell’Istituto Superiore di Sanità che ospita le informazioni più aggiornate sul virus, ha pubblicato qualche indicazione pratica, tratta dall’analisi della letteratura, per la gestione dello stress tra gli operatori sanitari.
Articoli dello stesso tenore si ritrovano, in questi giorni, anche su alcuni dei grandi media internazionali come il New York Times, che analizza il disagio dei molti specialisti
che devono operare in ambiti che non conoscono, per i quali non sono
stati formati, così come quello dei giovani medici che, come prima
esperienza o quasi, devono fronteggiare una situazione atipica e drammatica, o il Guardian, che si occupa degli infermieri neolaureati catapultati in trincea.
Lo stesso accade nei siti di confronto tra specialisti: Marina
Garassino, la responsabile dell’oncologia toracica dell’Istituto dei
tumori di Milano, intervistata da Medscape sull’esperienza italiana
ha raccontato la sua drammatica quotidianità, fatta di dialoghi con i
propri pazienti per evitare che si sentano abbandonati, di decisioni
molto difficili (in quali condizioni continuare a curare? Quando il
rischio associato all’interruzione di una terapia o al rinvio di un
intervento è superiore rispetto a quello cui possono essere esposti i
malati? Che cosa fare con chi stava partecipando a una sperimentazione
clinica?), della necessaria riorganizzazione del lavoro, della
preoccupazione per cosa succederà quando si tornerà a una qualche
normalità, e tutti i pazienti che hanno dovuto aspettare chiederanno di
ricevere le cure rimandate.
Un terremoto sotterraneo che è
previsto, atteso e conosciuto nelle sue forme fondamentali. I medici,
gli infermieri e tutti coloro che sono in prima linea stanno vivendo una
sorta di concentrato di tutto ciò normalmente li espone al rischio di
sviluppare, nei mesi e anni seguenti, gli effetti tossici di un carico
emotivo eccessivo, ma che di solito affrontano diluito negli anni,
riuscendo, nella maggior parte dei casi, a contrastarlo. Lavorano
troppo, in condizioni difficilissime, affrontando scelte drammatiche,
fronteggiando un dolore soverchiante, a volte si ammalano, o vedono i
colleghi ammalarsi, e contemporaneamente non hanno la possibilità di
decomprimere lo stress che accumulano, di avere spazi per la propria
vita personale. Tutto ciò è di un’intensità eccezionale, e potrebbe
farli esplodere. Se non si affronta anche questo aspetto con grande
attenzione, ripetono gli esperti, in futuro si dovranno fare i conti con
un’intera generazione di medici e infermieri che si saranno trasformati
in pazienti.
Per fortuna, a differenza della
COVID-19, in questo caso le cure esistono, e sono convalidate da tempo. A
patto di volerle mettere in pratica, e di capire quanto sia
indispensabile farlo. Della condizione psicologica del personale
sanitario il Tascabile
ha parlato con Vittorio Lingiardi, medico psichiatra, psicoanalista e
ordinario di Psicologia dinamica alla Sapienza di Roma. Nel 2018
Lingiardi ha pubblicato un libro sull’esperienza della diagnosi, dal
punto di vista sia del paziente che la riceve sia del medico che la
pronuncia, Diagnosi e destino (Einaudi), e nel 2019 ne ha pubblicato uno sui principi della convivenza psicologica e sociale: Io, tu, noi. Vivere con se stesso, l’altro, gli altri (Utet), entrambi oggi molto utili per comprendere quanto sta accadendo.
Video di Vittorio Lingiardi #lopsicologotiaiuta
Partiamo da una considerazione generale: che cosa sta succedendo alla medicina italiana?
Succede che
medici e infermieri stanno dando il meglio in una situazione
inimmaginabile, fino a un mese e mezzo fa. Lo fanno portando sulle
spalle l’eredità di una sanità pubblica con vette di eccellenza, ma
anche con abissi di trascuratezza. Investimenti (nel personale e nelle
strutture) non adeguati alle necessità del paese, programmazioni
sbagliate, aziendalizzazioni eccessive, sacrifici della medicina di
base, riduzione di posti letto, burocratizzazioni esasperanti e una
complessiva perdita del paziente come individuo a favore di una visione
del paziente come oggetto da riparare. Il risultato è che, in media, il
paziente è spaesato. E questo anche se il nostro sistema sanitario è
guardato con invidia da molti paesi cosiddetti ricchi (per intenderci:
meglio ammalarsi in Italia che in Gran Bretagna o negli Stati Uniti). Di
certo questo non è il momento della parte destruens
ma sicuramente, quando questa lunga notte sarà passata, avremo modo e
bisogno di ragionare sulla cura della salute pubblica. Su cosa chiedere,
oggi, e cosa dare, ai medici e al personale sanitario.
Questi mesi di emergenza stanno cambiando la percezione pubblica che i cittadini hanno dei medici?
Negli ultimi
due-tre anni, parallelamente a una sottocultura antipolitica e
antiscientifica (resa evidente, per esempio, dal movimento no-vax), si è
fatto strada un atteggiamento di diffidenza nei confronti dei portatori
di competenze. È prevalsa l’idea che i medici appartenessero a una
casta privilegiata che, in quanto tale, andava ridimensionata, spogliata
del carisma e dell’autorevolezza di cui aveva sempre goduto. E così
abbiamo avuto circa 1.200 medici all’anno aggrediti da pazienti o loro
familiari (per due terzi donne). Ma oltre al danno delle interazioni
bellicose con un’utenza esasperata o, a volte, semplicemente incapace di
accettare la malattia, l’incertezza insita nella medicina, che non è
una scienza esatta, c’è anche la beffa del lavoro in ospedali
fatiscenti, con turni massacranti, con carenza di personale e di fondi e
con episodi sconcertanti come, si legge in queste ore, la fornitura di
mascherine inadeguate. Certo, ci sono anche i medici, pochi, indagati
per tangenti, corruzione e operazioni inutili: ma non rappresentano la
categoria. Non occorre ricordare che l’emergenza coronavirus italiana ha
visto migliaia di medici ammalarsi e più di novanta
morire. Ecco, in questo trauma collettivo e professionale – del quale
vedremo a lungo le conseguenze psicologiche – forse c’è la possibilità
di un ripensamento. Nel cuore delle persone il medico sta tornando a
essere un role-model,
una voce da ascoltare, al servizio della cura e della cultura della
cura. Ovviamente, chi sceglie di svolgere una professione di aiuto non
deve essere idealizzato, ma va ribadito che è la voce dei medici e dei
ricercatori che deve dettare la linea alla politica sanitaria e alle
politiche dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Voglio
dunque illudermi che la prova enorme che stiamo attraversando ci possa
insegnare qualcosa sul piano dell’io (convivere con lo spavento), del tu
(convivere con l’altro della cura e della quarantena), del noi
(convivere con la comunità, con regole e responsabilità).
E in che senso, invece, il paziente medio oggi è spaesato?
È spaesato
perché sempre più spesso viene trattato come malattia, e non come
persona con una malattia. Dire questa cosa in questo momento può suonare
anacronistico e irritante, visto che l’emergenza richiede più azioni
che parole, e l’intervento medico non va certo impostato sulla
relazione, ma sulla rapidità e l’efficacia. Immaginiamo, però, di aver
fatto questa conversazione due mesi fa, prima dell’emergenza COVID-19.
Saremmo d’accordo nel dire che negli ultimi decenni c’è stato un
progressivo sacrificio del rapporto medico-paziente: non tanto per
l’inevitabile avvento di una medicina iperspecialistica, quanto perché
si è smesso di credere all’importanza della psicologia e della
personalità (di entrambi) nella relazione medico-paziente.
Com’è successo?
A causa
della riduzione del tempo e dello spazio a disposizione, la
velocizzazione delle fasi di colloquio e anamnesi, l’eccessiva
tecnicizzazione delle visite, la mancanza di una formazione obbligatoria
e seria alla psicologia medica. Pensiamo anche alla struttura fisica
degli ospedali: non più i padiglioni novecenteschi, creati pensando a
uno spazio fisico che favorisce la relazione e ambientati nel
territorio, ma giganteschi ospedali accentratori, de-territorializzati,
grandi hub di una medicina polarizzata. Ovviamente questo ha un
razionale in termini di prestazioni, spese, logistica. Ma
l’ospedale-azienda non sempre risponde ai bisogni relazionali del malato
(e forse neppure del medico). Poi ci si interroga perché siano così
diffuse pratiche di medicina alternativa la cui efficacia non è mai
stata dimostrata, e sempre più spesso la gente ricorra al Dottor Google.
Sia chiaro: l’emergenza COVID-19 ha numeri e condizioni di
eccezionalità pandemica e quindi ben venga il grande reparto di terapia
intensiva costruito in dieci giorni, ma col tempo dovremo fermarci a
riflettere, e pianificare una medicina che allo stress della malattia
non aggiunga quello dell’anonimato o della numerificazione delle
soggettività.
Una libera associazione: colpisce il
paradosso per cui l’ospedale, per eccellenza il luogo della massima
cura, oggi, nel pieno dell’epidemia, sia anche, nelle nostre
rappresentazioni mentali, il luogo del massimo rischio.
All’interno di quelle mura ci sono i medici e gli infermieri: che situazione stanno vivendo?
Chi è
impegnato nei reparti COVID-19 sta attingendo alla parte più nobile di
ciò che lo ha spinto a scegliere quel lavoro. Opera in una condizione
adrenalinica, che permette di “dissociare” in modo temporaneo
l’esperienza traumatica che sta affrontando. È la condizione traumatica
del soccorritore, ampiamente studiata a partire dalla medicina in tempo
di guerra. Si lavora con materiali e forze insufficienti, adattandosi a
ciò che la situazione richiede, chiamati spesso a scelte dolorose. È il
terreno su cui, nell’immediato, cresce il burn out
e mette radici il futuro disturbo da stress post traumatico. Ne vedremo
molti. Ce ne accorgiamo ogni volta che si verifica un evento
catastrofico: prima si curano le vittime primarie e poi, in molti casi,
ci si prende cura delle vittime secondarie, i soccorritori. Avviene per i
terremoti, gli incidenti aerei, i grandi incendi, a volte anche le
scene del crimine. Si parla di secondary traumatic stress (disorder) o compassion stress/fatigue, condizioni che richiedono interventi specifici condotti da personale addestrato. La stessa OMS, così come agenzie come i CDC americani (Centers for Disease Control and Prevention) stanno richiamando la nostra attenzione di professionisti della salute mentale, fornendo indicazioni specifiche su come muoverci.
In Italia ci si sta già preoccupando dei traumi psicologici nel personale santiario o la situazione è troppo emergenziale?
La comunità
italiana degli psicologi e degli psichiatri si sta mobilitando in vario
modo. Le autorità sono consapevoli, come testimonia il documento di Epicentro,
e come si vede da iniziative come quelle promosse dalla Facoltà di
Medicina e Psicologia della mia università, Sapienza di Roma, alcune
direttamente rivolte al personale sanitario dei Policlinici Universitari
dell’Ateneo, altre in forma di Servizio per le famiglie
rivolto alla grande comunità di docenti, personale amministrativo e
studenti della Sapienza. Anche la maggior parte delle associazioni di
psicoterapia o psicoanalisi hanno attivato o stanno attivando servizi di
ascolto (questo, per esempio, o questo).
In frangenti come questo la possibilità di ricevere in primo luogo
ascolto e contenimento, ma anche indicazioni relative alla gestione
pratica e emotiva delle situazioni più difficili, è fondamentale.
L’ascolto attivo e il contenimento emotivo sono fondamentali. Non sono
una terapia ma sono terapeutici. Sono un sostegno, uno spazio psichico.
Passata la fase acuta dell’emergenza, come bisognerà intervenire?
Bisognerà
occuparsi di gestire le conseguenze della pandemia per tutti, dai medici
più esperti, che possono aggiungere lo stress di questa esperienza
eccezionale a quello già accumulato negli anni, a quelli che possono
sentirsi inadeguati di fronte alle richieste psicologiche o
professionali dell’emergenza. Pensiamo per esempio ai medici con
specializzazioni non inerenti, oppure frustrati perché in molti casi
sono venute a mancare le condizioni per curare al meglio i propri
pazienti tradizionali, affetti da patologie non-COVID. Pensiamo ai
medici più giovani, che possono sentirsi smarriti di fronte a una realtà
così lontana da quella per cui hanno studiato e che magari prevedeva un
ingresso graduale nel mondo della clinica. Non sarà facile, ma sappiamo
come farlo: per esempio attivando nei reparti gruppi di discussione e
incontro ispirati a quelli che un secolo fa venivano chiamati “gruppi
Balint”, dal nome del medico ungherese che teorizzava la necessità di
dar voce alle preoccupazioni e alle angosce dei medici. La “manutenzione
del ruolo medico”,
la chiamava. In sostanza, si tratta di appuntamenti fissi nei quali,
sotto una guida esperta, i medici parlano dei propri casi, condividono
le proprie esperienze con i colleghi, ne analizzano il carico emotivo, i
conflitti, i vissuti. È un modo umano e intelligente per affrontare i
rischi di burn out
e migliorare la relazione con i pazienti e con il proprio lavoro. Ma è
necessario che al personale siano dati gli spazi e i tempi per
parteciparvi, e che la gestione sia affidata a professionisti
qualificati.
Il nostro sistema sanitario è preparato ad accogliere il supporto e la formazione di psicologici come sue parti integranti?
Claudio Rugarli,
clinico emerito, ha scritto un magnifico libro in cui definisce “medici
a metà” (così si intitola anche il libro) quei medici che vivono solo
di competenze scientifiche. Il rapporto tra medico e paziente, dice, è
un problema fondamentale della medicina: “chi lo trascura è un medico
dimezzato”. Negli anni questa consapevolezza si è fatta strada, anche se
l’organizzazione stenta a prenderne atto, perché in anni di
ristrettezze e tagli continui la formazione psicologica del medico è
stata evidentemente considerata una spesa superflua. Ma è sempre più
chiaro – questa crisi lo sta mettendo dolorosamente in luce – che per
lavorare al meglio il personale sanitario deve rispondere appieno alla
definizione di salute dell’OMS, e cioè godere di uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia;
al tempo stesso deve avere una formazione che includa competenze
psicologiche e relazionali: aiuterà meglio non solo i suoi pazienti, ma
anche se stesso.
Lei sta continuando a esercitare anche da remoto, con sedute on line. In che modo questa modalità sta cambiando il suo lavoro (se lo cambia)? E che cosa vuol dire per lei, in questo momento, essere un medico?
Essere medico, o
meglio, essere un clinico, significa inclinarsi verso il paziente. Non
solo perché la parola clinico deriva da κλίνη (letto), ma anche perché
indica un’inclinazione, la capacità di andare là dove il paziente ha
bisogno. Il clinico è la persona rivolta alla cura. Come psicoanalista e
psicoterapeuta la mia cura passa attraverso la relazione, l’ascolto e
la parola. Ed è quello che sto continuando a fare. Oggi, nel momento
dell’isolamento e delle quarantene, la parola e la presenza terapeutiche
viaggiano via cavo. Fino a due mesi fa era una soluzione dettata dalle
necessità e in mancanza di meglio, oggi è l’unica possibilità. In attesa
di ritrovarci, stiamo imparando a comunicare senza incontrarci. Come in
tutte le condizioni nuove stiamo facendo delle scoperte che ci aiutano a
riflettere sulla sostanza (fisica e mentale) di cui è fatta una
terapia, al rapporto tra tecnica e relazione. Come ho scritto con il mio
allievo e collega Guido Giovanardi in una rubrica che si chiama “Giù
dal lettino” e che teniamo con frequenza bimensile nella sezione cultura del sito del Sole 24 ore,
“l’importante è che la coppia al lavoro rifletta e ‘mentalizzi’ l’uso
che fa degli strumenti”. Anche quando lavora su Skype o Facetime, lo
strumento principale del terapeuta è il suo assetto psico-affettivo, il
suo setting mentale.
https://www.iltascabile.com
laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche.
Dopo anni nel campo della ricerca, si è dedicata interamente all’attività giornalistica.
Oggi collabora con i principali gruppi editoriali italiani occupandosi di salute, alimentazione, sostenibilità ambientale e scienza in generale.
Il suo ultimo libro è “Il destino del cibo. Così mangeremo per salvare il mondo" (Feltrinelli, 2020).
laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche.
Dopo anni nel campo della ricerca, si è dedicata interamente all’attività giornalistica.
Oggi collabora con i principali gruppi editoriali italiani occupandosi di salute, alimentazione, sostenibilità ambientale e scienza in generale.
Il suo ultimo libro è “Il destino del cibo. Così mangeremo per salvare il mondo" (Feltrinelli, 2020).
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