Prendo la pillola al mattino presto e comincio a sentirne glieffetti quasi immediatamente. Dapprima arriva una specie di ronzioelettrico che mi parte dal petto, prosegue fin dentro la mandibola e si fissa alla base del collo; il respiro mi si fa più veloce e più breve; le dita mi formicolano leggermente; la testa comincia a fare degli scatti fastidiosi, come se mancasse un colpo e tornasse indietro a compensare la perdita con un doppio movimento. Mi metto a tossire. La sensazione elettrica mi va alla testa e comincio a sentirmi gli occhi gonfi. Dopo un'ora, una spiacevole emicrania mi impone una benda attorno alla testa, dove rimarrà per lungo tempo. Non provo un vero e riconoscibile "sballo", ma circa venti minuti dopo aver preso la medicina, parlo più veloce e mi si riordinano le idee. Sì, mi sorprendo a pensare, riesco a scrivere sotto l'effetto di questa roba. Mi potrebbero addirittura convincere a pulire la vasca da bagno con uno spazzolino da denti oppure a mettere in ordine cronologico trent'anni di fotografie, tutte mescolate. Potrei scrivere un saggio di fine trimestre. Tale saggio mi pare un compito particolarmente appropriato perchè la sensazione che sto provando mi ricorda da vicino i miei giorni al college quando io e dozzine di altri sventurati studenti eravamo soliti bere caffè nero e denso, finchè la vescica non minacciava di scoppiare. Quando poi questo non faceva più effetto, quella settimana facevamo piazzapulita di qualsiasi stimolante avessero escogitato quelli che tra noi si specializzavano in chimica. Trangugiavamo qualsiasi cosa ci tenesse svegli. Una volta mi capitò persino di vedere in biblioteca un'anima audace sniffare piste di caffè macinato. Provo un senso di oppressione al petto e la testa è piena di rumori. Non mi sto divertendo. Quei giorni al college sono senza dubbio ormai lontani. Inspiegabilmente, decido di farmi un po' di caffè. Ne bevo due tazze e vado in tilt: il cuore mi comincia a martellare, inizio a sudare, sento fitte di dolore agli occhi. Adesso sono fuori uso, nervosa e agitata. Quando, alcune ore dopo, la medicina esaurisce il suo effetto, mi sento spossata, disorientata, stanca. Molto più tardi poi, quando, secondo tutto il materiale consultato, il mio organismo avrebbe dovuto metabolizzare ed eliminare la medicina, mi ritrovo sdraiata a letto, sveglia, a fissare l'impietosa oscurità del soffitto. Di sicuro non sono l'unica in casa a non riuscire a dormire. Nelle lunghe ore dopo la mezzanotte, stagliandosi incerta nell'oscurità, distinguo la sagoma del mio figliolo dodicenne aggirarsi presso il mio letto. "Ho avuto un altro incubo, mamma", mi dice. Ha la voce tremula e ancora impastata di sonno. "Com'era?" "Ho sognato che ero il personaggio di un cartone animato. Avevo delle righe nere disegnate tutte intorno. Non riuscivo a staccarmi dalla carta." "E' solo un sogno, tesoro", gli dico prendendogli la mano. "Vedi? Non sei un cartone. Se fossi un cartone non potrei tenerti la mano." La cosa non sembra rassicurarlo particolarmente. Mi chiede di riaccompagnarlo a letto. Tornato nella sua stanza, si mette le cuffie e ascolta la musica. Vuole la porta chiusa perchè niente possa entrare. Oppure uscire. Gli do un bacio e gli assicuro che rimarrà tre dimensioni, ma la sua mente è già lontana, ancora turbata. Ora, tornata nel mio letto di insonne, cominciano le lacrime. So che cosa prova Blaze e so perché non riesce a dormire e anche perché ha degli incubi. Dopo tutto, oggi abbiamo entrambi preso la stessa medicina. Non è anfetamina, non è cocaina, nè l'intruglio innocente messo assieme da uno studente specializzando in chimica.
E' il Ritalin.
Debra Ginsberg, Mio figlio Blaze. Crescere un bambino speciale in un mondo normale. TEA editrice. 2002
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