21 luglio 2007

Napoli, Gomorra

Testimonianza di Stella, medico, che segue un progetto a Napoli per garantire l'accesso alle cure agli stranieri senza permesso di soggiorno.

25 giugno 2007
Stasera comincio a scrivere la mia Gomorra personale…
Davanti a una finestra spalancata sul niente, a una strada dove corre rumore e di giorno si putrefanno le immondizie sotto il sole caldo del Mezzogiorno, come Saviano mi viene da chiedermi se sia ancora possibile e giusto raccontare una storia. Raccontare quello che vedo, senza la pretesa di capire, né di trovare risposte. Solo quello che ho visto. "Io so ed ho le prove" scriveva Saviano appunto.
So che S. è venuto dall'India per venire a maciullarsi le gambe dentro una pressa del fieno nel fondo sperduto del casertano. Ora vive su un letto di un casale in disuso, in mezzo a una landa di niente. Intorno ci sono solo campi e branchi di bufale, e altri indiani disperati come lui, piegati a spalare cumuli di sterco di bufala per guadagnare 25 euro al giorno.
S. vive incatenato a un letto, ha perso l'uso delle gambe, ma ogni settimana telefona a casa, a Nuova Delhi , per raccontare alla famiglia che va tutto bene. Che qui c'è lavoro, ci sono i soldi, si vive bene.
Questa è un'altra Italia, o forse è la stessa, solo che lontano da qui facciamo finta di essere migliori e di non sapere niente di tutto questo. Come se non ci riguardasse, come se tutto il resto, quello che compriamo al supermercato incartato in doppio involucro di plastica, gli abiti che indossiamo, la frutta che mangiamo, non avesse niente a che vedere con tutto ciò , non venisse da qui, dalle cassette che migliaia di disgraziati si caricano sulle spalle, giorno dopo giorno, stagione dopo stagione.
Le fragole, le pesche, i mandarini. I peperoni, i pomodori ciliegini, i meloni. E poi le mozzarelle di bufala, orgoglio e vanto di questa terra.
Gli indiani sono straordinari, peggio dei cinesi. Capaci di vivere per anni sepolti vivi in un allevamento di bufale, invisibili, e di vivere, morire e sfracellarsi le gambe e poi sorriderti quando in un pomeriggio di maggio li vai a trovare per portar loro le medicine e vedere se le pulci e le piaghe da decubito non se li sono ancora mangiati, su un materasso lercio in mezzo a un niente lontano chilometri da ogni forma di vita umana. Ti sorridono con fare mite, deve essere l'imprinting indù, non lo so. Non si arrabbiano mai, dovrebbero essere inferociti e invece sono sempre calmi.
Ma S. non è che uno dei tanti. Ci sono i ragazzi ghanesi, braccia tornite e forti di salute, che si svegliano alle quattro di mattina per essere sulla strada alle cinque, ad aspettare ai carrefour i caporali che se li portino ovunque, a spezzarsi la schiena per un pezzo di pane. Ci sono così abituati che nel loro lessico approssimativo "fare il carrefour" è diventato un lavoro.
Vanno con chi capita, con il primo che se li carica, senza fare domande. Hanno occhi grandi di adolescenti cresciuti in fretta, e il sorriso contagioso. Molti di loro hanno in fondo agli occhi l'orrore che hanno vissuto per arrivare fin qui, pronti ad affrontare tutto certi che alla fine ci sarebbe stata la terra promessa. Ma alla fine c'è solo uno stradone deserto con le insegne al neon e i marciapiedi polverosi, che corre verso il nulla in una terra piatta come la rassegnazione. Il sogno di riscossa qui, tra i capannoni e la campagna che si stende tra Caserta ed il mare. Ci sono gli stagionali, quelli che per vivere si girano tutta l'Italia, ogni stagione un posto diverso. Vivono in accampamenti di cartoni e legno, tirati su alla bell'e meglio con materiali di fortuna. Siamo andati a trovarne un gruppo qualche settimana fa, sono venuti per la raccolta delle pesche. Qualche settimana, poi riprenderanno la strada del loro eterno girovagare, alla volta di qualche altro posto dove matura la frutta dei nostri centrotavola d'argento. K. viene da Tunisi, è bello e giovane ed ha negli occhi il sole del Mediterraneo. Fa domande che mi lasciano senza parole, K. c onosce internet e la legge italiana e mi chiede del mio lavoro. Mi parla dei suoi progetti, di quelli che aveva quando è partito alla volta dell'Italia, sognando di poter continuare a studiare. K. dorme su un materasso sventrato per terra in mezzo a un campo disseminato di spazzatura e non ha nemmeno una latrina di cui servirsi.
L'acqua ce l'ha perché qualcuno, nei paraggi, è così pietoso da fornirgliela gratis, in grosse taniche di plastica. Ci sono le badanti ucraine, che vivono come ombre dietro alle mummie a cui sono immolate, come vergini vestali di un paese che invecchia. Chiuse in casa per anni, senz'altra compagnia degli imbarazzanti brandelli di vita che si attarda a spegnersi, a vivere notte e giorno per chi della vita non sa più che farne. Soffrono tutte di disturbi della sfera psichica, sono ansiose e depresse, scoppiano volentieri a piangere appena scavi nel loro intimo. Dopo anni di permanenza in Italia non sanno una parola di italiano perché nessuno fa lo sforzo di insegnarglielo e quello che conoscono dell'Italia sono solo le 4 mura degli appartamenti in cui vivono segregate, per 500 euro al mese.
Mi interrogo spesso, da quando sono qui, sul concetto di povertà. Mi chiedo chi sia veramente povero su questa terra, e se esistano povertà differenti. Qui non c'è malnutrizione, non si muore di fame, quasi tutti i nostri pazienti hanno abiti per coprirsi e un posto dove dormire, bene o male. Per essere considerati poveri, ed avere l'attenzione del mondo bisogna per forza essere vestiti di stracci ed avere le mosche negli occhi? O basta anche solo non avere identità, essere privo di tutto ciò che ti fa uomo fra gli uomini, lontano dalla propria storia, non avere gli strumenti per difendersi dall'ostilità e dall'ignoranza, non poter far sentire la propria voce?
Mi sento dire "...Tanto in Africa stavano sicuramente peggio di così" e mi chiedo se esista una graduatoria dei Peggio nel M ondo, e se la fame del Niger giustifichi o almeno allevi la disperazione che vedo in questi occhi, se l'AIDS del Botswana renda più tollerabile la solitudine di chi è sbarcato quassù.
Penso a queste persone senza un volto e senza diritti, che ci fa comodo non vedere ma che nella realtà sono il motore invisibile e silenzioso che fa funzionare le nostre economie.
Penso a cosa ne rimane di te se non sei altro che forza lavoro da convertire in denaro sonante.
Dalla memoria riemergono ricordi sepolti di liceo:"...Considerate se questo è un uomo/ che lavora nel fango/ che non conosce pace/ che lotta per un pezzo di pane/ che muore per un sì o per un no/Considerate se questa è una donna/ senza capelli e senza nome/ senza più forza di ricordare/ vuoti gli occhi e freddo il grembo/ .../ meditate che questo è stato".

A presto
Stella

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