13 novembre 2012

DISLESSIA: problema pedagogico e non sanitario

ORIGINE DSA PSICOLOGICA, NO A SCUOLA REPARTO DI DIVERSI
 Dalla scuola deve ripartire un movimento culturale che ridia alla pedagogia il ruolo che le spetta, perche' i Disturbi specifici dell'apprendimento (Dsa) devono essere affrontati da un punto di vista pedagogico e non sanitario. Questo il messaggio lanciato sabato a Roma dall'Istituto di Ortofonologia (IdO) al XV convegno nazionale dedicato al tema delle 'Dislessie'.
Il titolo dell'iniziativa e' "provocatorio perche' vogliamo riflettere su una situazione sempre piu' sanitarizzata". Cosi' Federico Bianchi di Castelbianco, direttore dell'IdO, ha aperto i lavori del Convegno presso la scuola I. C. Regina Elena di Roma. "I disturbi dell'apprendimento- ha proseguito- hanno origini diverse e vanno appunto compensati con i progetti pedagogici. I Dsa invece hanno un'origine psicologica, mentre l'ipotesi genetica non e' stata mai dimostrata e semmai lo fosse riguarderebbe una percentuale talmente minima, come per tutte le malattie rare, da non poter costituire un valido riferimento". Quindi, per lo psicoterapeuta, "dire che la dislessia abbia un'origine genetica solo perche' sono aumentate le segnalazioni sarebbe come affermare che anche l'obesita', l'anoressia e la bulimia abbiamo un'origine genetica, se pensiamo - ha precisato- che si tratti di un problema che riguarda il 30% degli adolescenti". Ma ultimamente si arriva "al paradosso- ha aggiunto il direttore dell'IdO- parlando addirittura di cripto dislessici che compaiono al liceo. Noi vogliamo affrontare il discorso a livello psicopedagogico ed evitare che la scuola divenga un reparto di bambini diversi".
Quello che e' "mutato nel tempo e' il principale problema che la scuola deve affrontare". Mentre nel 1980 ci si preoccupava se i bambini "comprendessero il testo, oggi non ci occupiamo piu' di questo ma del tempo che ci impiegano per leggere e scrivere, focalizzandoci su quanti errori fanno e in quanto tempo". Nel 1980 "occorrevano due anni, prima e seconda elementare, per imparare a leggere e a scrivere, adesso- ha spiegato lo psicoterapeuta- lo si fa in 3 mesi". Per quanto riguarda poi l'aspetto emotivo, "oggi e' preso in considerazione, ma solo come ansia di insuccesso. Invece sarebbe necessario soffermarsi sul problema, soprattutto se lo stato ansioso e' precedente all'ingresso del bambino nella scuola". Castelbianco ha ricordato che il numero dei dislessici "e' aumentato a dismisura essendo aumentati gli anticipatari, ovvero i bambini che vanno in prima elementare a 5 anni. Soggetti che hanno maggiore difficolta' scolastiche non per un problema intellettivo ma perche' non sono maturi, perche' la richiesta di prestazioni avviene in un momento inadeguato alla loro eta'".
La forza della "pedagogia e la sua responsabilita'- ha incalzato il direttore dell'IdO- consistono proprio nell'evitare queste anticipazioni. Alle elementari si va a 6 anni altrimenti aumentano le problematiche di natura emotiva, le fobie scolari, il disagio da inserimento, la noia e l'irrequietezza.
Quest'ultima gia' nel 2000 si attestava al 5% e adesso la chiamano col nome di sindrome da iperattivita' (Adhd). Siamo nell'epoca delle descrizioni e non della comprensione di un problema". Infatti, ormai "vengono etichettati come dislessici bambini con problemi diversi: mancinismo, disordine visuo-spaziale, disorganizzazione generale. Tutte problematiche- ha chiarito Castelbianco- che ricadono nel criterio tecnico di valutazione. Ma dobbiamo stare attenti perche' abbiamo bimbi con diverse situazioni alle spalle: adottati, stressati, traumatizzati, le cui difficolta' emotive comportano poi un aumento di quelle di apprendimento". Anche per la responsabile del Servizio Terapie dell'IdO, Magda Di Renzo, il dato degli anticipatari "conferma che l'apprendimento e' un atto complesso e che bisogna capire quando il bambino e' pronto, poiche' nel passaggio dalla scuola materna a quella elementare c'e' una forte aspettativa sociale. Un'attesa che grava sulle insegnati, che a loro volta devono apparire come produttive e subito, invece che ricordare l'importanza del tempo nell'educazione".
La psicoterapeuta ha infine osservato che "una descrizione unica del minore, che prescinda dalla dimensione emotiva, penalizza sia il bambino che ha grandi potenzialita' che quello che ne ha meno". I bambini "sono spaventati di non essere intelligenti, vivono l'incapacita' come una disabilita' intellettiva. Quello che non va e' il marchio di disabilita' che rimane immodificabile quando invece non e' cosi', al contrario- ha concluso Di Renzo- il loro miglioramento e' visibile".

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