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1 aprile 2013

ADHD, uno studio

Il più importante studio a lungo termine mai condotto su bambini in età prescolare diagnosticati ADHD (Sindrome da Iperattività e Deficit di Attenzione, la 'presunta' patologia dei bambini troppo agitati e distratti), pubblicato recentemente sull'autorevole rivista scientifica internazionale 'Journal of American Academy of Child and Adolescent Psychiatry', rileva che il trattamento farmacologico precoce su bambini con problematiche di comportamento in classe e in famiglia non ha effetti significativi sulla riduzione dei sintomi: 9 bambini su 10 continuano a manifestare il problema anche molto tempo dopo l'inizio del trattamento farmacologico, e ciò al di la della gravità della patologia.

Emilia Costa, professore Emerito di Psichiatria e già titolare della 1^ Cattedra di Psichiatria dell'Universita' di Roma "La Sapienza", commenta così lo studio americano: "La tesi dei colleghi americani conferma quanto da tempo dicevamo, ovvero che il cervello del bambino in evoluzione ha necessità fondamentale più che di psicofarmaci di un adeguato e sano apporto alimentare, di un contesto affettivo positivo, di movimento e di stimoli ambientali, di attenzione al clima, alla temperatura, alla ventilazione, ai campi elettromagnetici, e molto altri accorgimenti necessari e dovuti in una fase delicata come quella della crescita. L'assenza o la carenza di uno solo di questi apporti fondamentali può causare anormalità comportamentali e deficit che non sono regolabili 'magicamente' ingerendo una pastiglia di psicofarmaco. Anzi, l'assunzione di psicofarmaci rischia di modificare il normale sviluppo del cervello del bambino e dell'adolescente fino a produrre diversi disturbi di personalità, che vengono poi classificati come altre malattie 'ovviamente' da curare con altri psicofarmaci. Così la catena della malattia psichica - conclude Costa - si perpetua in eterno, per la gioia delle multinazionali del farmaco e dei loro ricchi bilanci".

L'indagine, condotta su Bambini considerati con problemi di comportamento e temperamento tra i 3 e i 5 anni, ha osservato i piccoli pazienti nei sei anni successivi alla prima diagnosi. I sintomi tipici dell'ADHD (disattenzione, iperattività e impulsività) sono continuati per circa il 90% del numeroso gruppo di bimbi coinvolti nella sperimentazione, anche sei anni dopo la diagnosi, senza evidenziare rilevanti differenze tra il gruppo trattato farmacologicamente e quello non medicalizzato.
Sul punto è intervenuto anche Luca Poma, giornalista e Portavoce di "Giù le Mani dai Bambini", il più rappresentativo comitato italiano per la farmacovigilanza pediatrica. "Sono anni che sosteniamo l'inutilità di questi psicofarmaci, che hanno un effetto limitato nel tempo e per contro espongono i bambini a gravi rischi. Ci appelliamo all'Istituto Superiore di Sanità, che sta collaborando alla stesura delle nuove linee guida per il trattamento dell'ADHD, affinché, nel rispetto della propria missione di ente pubblico imparziale che lavora per il bene di tutta la cittadinanza, includa queste nuove evidenze scientifiche nei protocolli. Quella parte di comunità scientifica che promuove - spesso in pieno conflitto d'interessi - l'utilità dell'uso di molecole psicoattive e anfetamine su bambini piccoli e adolescenti, deve finalmente ammettere che il presunto beneficio è di breve termine, che si riducono solo i sintomi - peraltro a prezzo di rischi per la salute dei più piccoli - e che queste cosiddette terapie non curano assolutamente nulla.

Ciò che serve è una presa in carico 'non semplicistica' per i piccoli con problemi di comportamento: come diceva un grande pediatra americano, il Dott. Bill Carey, bisogna diffidare delle soluzioni 'quick-fix', soluzioni facili a problemi complessi".
Secondo i ricercatori, oltre il 7% dei bambini americani sono attualmente in trattamento per l'ADHD, per una stima di incassi da parte delle multinazionali farmaceutiche coinvolte che oscilla 36 e 52 miliardi dollari all'anno.

18 dicembre 2012

ADHD: come intervenire sulle emozioni a scuola e a casa



Comprendere il ruolo delle emozioni e delle componenti affettivo-relazionali nelle problematiche legate al Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) e individuare gli strumenti di intervento. Sono stati questi i temi al centro del III Convegno Regionale AIDAI Toscana, dal titolo "Attenzione ed emozioni: la componente affettivo-relazionale nel Disturbo da Deficit dell'Attenzione e Iperattività", realizzato in collaborazione con l'Ufficio Scolastico Regionale della Toscana e svoltosi lo scorso 1° dicembre ad Arezzo.
L'ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) è un disturbo neurobiologico dell'età evolutiva caratterizzato da disattenzione, impulsività e iperattività motoria. I soggetti con ADHD, che in Italia sono circa l'1% nella fascia d'età che va dai 6 ai 18 anni, presentano difficoltà di concentrazione, si distraggono facilmente, hanno difficoltà a stare fermi e non sono in grado di controllare il loro comportamento impulsivo.
"Non ci si può, infatti, limitare a trattare gli aspetti neuro-psicologici del disturbo ADHD; anche le emozioni sono importanti perché strettamente collegate sia all'attenzione che al comportamento. Per questo motivo abbiamo deciso di dedicare il convegno di quest'anno alla componente emotiva. – Dice la Dottoressa Sara Pezzica, Psicologa-Psicoterapeuta e Presidente AIDAI Toscana - Si può, infatti, parlare di emozione quale "balsamo" per migliorare l'attenzione nei bambini con ADHD a scuola, a casa e in tutti i contesti di vita".
E sulle emozioni, come hanno mostrato gli esperti, è possibile intervenire con pratiche psicologico-educazionali mirate, diverse a seconda del contesto di vita. Quanto al contesto familiare, l'associazione organizza ogni anno dei gruppi di "parent training", per insegnare ai genitori delle strategie comunicative efficaci. Per quanto riguarda l'ambito scolastico bisogna, invece, considerare che il bambino in classe vive in un gruppo che, spesso, comprende bambini con disturbi dell'apprendimento o handicap specifici. Grazie a interventi di educazione assistita e ai laboratori di classe è però possibile fare in modo che i compagni cooperino tra loro piuttosto che vengano isolati i soggetti "difficili".
Ogni intervento terapeutico, inoltre, va adattato alle caratteristiche del soggetto: età, gravità dei sintomi, disturbi secondari, situazione famigliare e sociale, e deve essere inquadrato nell'ambito di un approccio "multimodale", ovvero una terapia cognitivo-comportamentale e/o psico-educativa. Nei casi più gravi, alla terapia multimodale può essere associato anche un trattamento farmacologico, quando strettamente necessario, che deve essere intrapreso solo se indicato dal neuropsichiatra infantile. Per la corretta gestione del paziente è importante impostare da subito il protocollo di cura più idoneo.In questo senso la diagnosi precoce è fondamentale, soprattutto quando ci si trova ad affrontare bambini con ADHD e con disturbi psichiatrici concomitanti come, ad esempio, i disturbi della condotta.
Il Disturbo della Condotta, che si manifesta con comportamenti antisociali (ad esempio aggressività fisica, vandalismo, inganni e raggiri), mostra infatti una coesistenza con l'ADHD. C'è una percentuale non trascurabile di bambini con ADHD, tra il 25 e il 40%, che nel tempo sviluppano anche comportamenti aggressivi.
"Non è ancora completamente nota la relazione tra i due disturbi, anche se manifesta. Diversi studi mostrano che questi soggetti avrebbero difficoltà a rappresentare le conseguenze delle proprie azioni per le altre persone non tanto cognitivamente, ma affettivamente (deficit di empatia affettiva).– afferma il dottor Daniele Fedeli, Ricercatore di Pedagogia Speciale all'Università di Udine – Se il bambino è emotivamente "piatto", cioè ha difficoltà a sperimentare e riconoscere le emozioni dell'altro, c'è un rischio maggiore che esso possa compiere azioni aggressive senza avvertire senso di colpa o imbarazzo. Per far recuperare ai bambini la capacità affettiva è necessario individuare i soggetti a rischio di un'evoluzione problematica per poter attuare interventi terapeutici tempestivi".

L'incontro è stato patrocinato dall'Istituto Superiore di Sanità, USL 8 Arezzo, Provincia di Arezzo, Associazione Italiana Ricerca e Intervento nella Psicopatologia dell'Apprendimento (AIRIPA), Società Italiana Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC), Ordine degli Psicologi della Toscana e Società Italiana di Neuropsichiatria dell'Infanzia e dell'Adolescenza (SINPIA).

13 novembre 2012

DISLESSIA: problema pedagogico e non sanitario

ORIGINE DSA PSICOLOGICA, NO A SCUOLA REPARTO DI DIVERSI
 Dalla scuola deve ripartire un movimento culturale che ridia alla pedagogia il ruolo che le spetta, perche' i Disturbi specifici dell'apprendimento (Dsa) devono essere affrontati da un punto di vista pedagogico e non sanitario. Questo il messaggio lanciato sabato a Roma dall'Istituto di Ortofonologia (IdO) al XV convegno nazionale dedicato al tema delle 'Dislessie'.
Il titolo dell'iniziativa e' "provocatorio perche' vogliamo riflettere su una situazione sempre piu' sanitarizzata". Cosi' Federico Bianchi di Castelbianco, direttore dell'IdO, ha aperto i lavori del Convegno presso la scuola I. C. Regina Elena di Roma. "I disturbi dell'apprendimento- ha proseguito- hanno origini diverse e vanno appunto compensati con i progetti pedagogici. I Dsa invece hanno un'origine psicologica, mentre l'ipotesi genetica non e' stata mai dimostrata e semmai lo fosse riguarderebbe una percentuale talmente minima, come per tutte le malattie rare, da non poter costituire un valido riferimento". Quindi, per lo psicoterapeuta, "dire che la dislessia abbia un'origine genetica solo perche' sono aumentate le segnalazioni sarebbe come affermare che anche l'obesita', l'anoressia e la bulimia abbiamo un'origine genetica, se pensiamo - ha precisato- che si tratti di un problema che riguarda il 30% degli adolescenti". Ma ultimamente si arriva "al paradosso- ha aggiunto il direttore dell'IdO- parlando addirittura di cripto dislessici che compaiono al liceo. Noi vogliamo affrontare il discorso a livello psicopedagogico ed evitare che la scuola divenga un reparto di bambini diversi".
Quello che e' "mutato nel tempo e' il principale problema che la scuola deve affrontare". Mentre nel 1980 ci si preoccupava se i bambini "comprendessero il testo, oggi non ci occupiamo piu' di questo ma del tempo che ci impiegano per leggere e scrivere, focalizzandoci su quanti errori fanno e in quanto tempo". Nel 1980 "occorrevano due anni, prima e seconda elementare, per imparare a leggere e a scrivere, adesso- ha spiegato lo psicoterapeuta- lo si fa in 3 mesi". Per quanto riguarda poi l'aspetto emotivo, "oggi e' preso in considerazione, ma solo come ansia di insuccesso. Invece sarebbe necessario soffermarsi sul problema, soprattutto se lo stato ansioso e' precedente all'ingresso del bambino nella scuola". Castelbianco ha ricordato che il numero dei dislessici "e' aumentato a dismisura essendo aumentati gli anticipatari, ovvero i bambini che vanno in prima elementare a 5 anni. Soggetti che hanno maggiore difficolta' scolastiche non per un problema intellettivo ma perche' non sono maturi, perche' la richiesta di prestazioni avviene in un momento inadeguato alla loro eta'".
La forza della "pedagogia e la sua responsabilita'- ha incalzato il direttore dell'IdO- consistono proprio nell'evitare queste anticipazioni. Alle elementari si va a 6 anni altrimenti aumentano le problematiche di natura emotiva, le fobie scolari, il disagio da inserimento, la noia e l'irrequietezza.
Quest'ultima gia' nel 2000 si attestava al 5% e adesso la chiamano col nome di sindrome da iperattivita' (Adhd). Siamo nell'epoca delle descrizioni e non della comprensione di un problema". Infatti, ormai "vengono etichettati come dislessici bambini con problemi diversi: mancinismo, disordine visuo-spaziale, disorganizzazione generale. Tutte problematiche- ha chiarito Castelbianco- che ricadono nel criterio tecnico di valutazione. Ma dobbiamo stare attenti perche' abbiamo bimbi con diverse situazioni alle spalle: adottati, stressati, traumatizzati, le cui difficolta' emotive comportano poi un aumento di quelle di apprendimento". Anche per la responsabile del Servizio Terapie dell'IdO, Magda Di Renzo, il dato degli anticipatari "conferma che l'apprendimento e' un atto complesso e che bisogna capire quando il bambino e' pronto, poiche' nel passaggio dalla scuola materna a quella elementare c'e' una forte aspettativa sociale. Un'attesa che grava sulle insegnati, che a loro volta devono apparire come produttive e subito, invece che ricordare l'importanza del tempo nell'educazione".
La psicoterapeuta ha infine osservato che "una descrizione unica del minore, che prescinda dalla dimensione emotiva, penalizza sia il bambino che ha grandi potenzialita' che quello che ne ha meno". I bambini "sono spaventati di non essere intelligenti, vivono l'incapacita' come una disabilita' intellettiva. Quello che non va e' il marchio di disabilita' che rimane immodificabile quando invece non e' cosi', al contrario- ha concluso Di Renzo- il loro miglioramento e' visibile".