La sfida alla fortuna è tutta nella mente. Che va rieducata
Una storia, purtroppo, fra tante: il suicidio di
un trentaquattrenne della provincia di Mantova. Giovane padre "malato di
videopoker", vittima della solitudine imposta da una condizione clinica
che nei paesi anglosassoni viene definita Gambling Disorder.
Sul sito del Dipartimento delle Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri, le stime relative
alla grandezza del gioco d’azzardo patologico ci informano su una
forbice che varia dallo 0,5 al 2,2% della popolazione generale. Un
fenomeno che, se consideriamo il picco (1.329.211), interesserebbe una
città italiana della grandezza di una metropoli. In altre parole, è come
se gli abitanti di Milano si esponessero al rischio quotidiano di
dilapidare il proprio patrimonio, in preda all’irresistibile desiderio
di puntare denaro e garantirsi un momentaneo e appagante stato di
eccitazione.
Eccitazione e delusione definiscono
un’oscillazione che il giocatore d’azzardo conosce bene, ma dalla quale
non riesce a difendersi. La trappola risiede nel senso di prestigio, di
onnipotenza, oltre che nelle vivide fantasie di vincita che da un certo
punto in poi diventano certezza di potersi rifare, irrinunciabile
modulatore dell’umore depresso che consegue alle frequenti perdite. Da
qui in poi, aumentano la frequenza del gioco e il desiderio di
recuperare, ma diminuiscono le possibilità di sottrarsi a questo
pericoloso inganno.
Una spirale sulla quale è possibile
intervenire grazie a protocolli di psicoterapia cognitivo
comportamentale che si basano sulla ristrutturazione di alcuni degli
assunti centrali della mente del giocatore. Una di esse è l’illusione
del controllo e cioè la granitica credenza di avere il potere di
orientare gli eventi, influenzando risultati che rispondono solo (o
forse neanche!) al caso. Uno degli effetti ascrivibili all'azione di
questo stato mentale è lo sviluppo di strategie ad hoc tese a predire o a
determinare il risultato del gioco.
È quanto accade nei casinò di tutto il
mondo. Giocatori che alla roulette scommettono più soldi se gli si offre
la possibilità di lanciare personalmente la pallina, rispetto a quando
il destino è nelle mani del croupier. A peggiorare le cose,
l’attribuzione circa l’imminenza della vincita, vera e propria
sensazione corporea che partecipa all’irresistibilità dell’impulso.
E ancora, l’incrollabile fiducia nella
propria esperienza, l’errore fatale di attribuire a una serie continua
di perdite il segnale che al prossimo lancio si vince, la scrupolosa
cura nell’esecuzione di rituali e comportamenti superstiziosi,
imperativi per una vincita sicura. Tutto nella mente del giocatore. Un
grumo che esercita il suo inarrestabile potere un attimo prima di
decidere. Un attimo prima di scegliere su quale carta puntare, su come
lanciare i dadi, su quali squadre scommettere. Su come scommettere. Un
attimo prima di non sapere ciò che il giocatore dà quasi per scontato un
attimo dopo aver puntato. Che si perde. Dignità e soldi. Affetti. E
spesso la vita.
Nessun commento:
Posta un commento