Seduta di fronte al Prof. Jervis per l’esame di Teorie della personalità, speravo che non mi chiedesse il cognitivismo: lo trovavo complicato, non mi piaceva e non riuscivo mai a inquadrare bene l’argomento.
Jervis me lo chiese eccome, passai l’esame con un voto mediocre.
All’epoca ero più affascinata dalla psicoanalisi
e dall’interpretazione dei sogni. In verità facevo un po’ fatica a
considerarmi in termini di istanze psichiche: l’Es l’Io e il Super Io,
di cui parlava Freud.
Ma se l’alternativa era quella di equipararmi al computer, come
dicevano i cognitivisti, non avevo dubbi: preferivo di gran lunga Freud.
Alla fine dell’università mi sono dovuta ricredere: ho riscoperto il cognitivismo e cominciato a farne parte.
Durante gli studi, non avevo capito il principio di base del cognitivismo per cui nel sintomo la persona esprime il suo modo di vedere la vita, le sue convinzioni, la sua storia.
Prendiamo i disturbi del comportamento alimentare per esempio.
Chi
controlla ossessivamente la qualità e quantità di cibo da mangiare, o
si lascia andare all’impulso di svuotare il frigo (e lo stomaco a
seguire), o mangia in continuazione, “racconta” come si percepisce, che
rapporto ha con gli altri, e quanto sente di avere un ruolo attivo in
tutta la faccenda. L’attenzione è riposta sul cibo mentre il problema è
su ciò che esso rappresenta. Per esempio un banco di
prova su cui misurare la capacità/incapacità di tenere sotto controllo i
propri bisogni affettivi o di manipolare i giudizi esterni e il corpo è
la prova di quanto si sente di esserci riusciti.
Tutto questo si chiama organizzazione di significato personale: è
un insieme di schemi mentali, derivati dalle esperienze e conoscenze
fatte, che seleziona certe cose e ne lascia altre sullo sfondo: per
esempio rende importante l’opinione degli altri a scapito
dell’affermazione personale. E’ la diretta conseguenza dei modelli familiari
vissuti. Nel nostro caso di modelli familiari in cui si chiede
direttamente al bambino “di fare il bravo, o la brava” e indirettamente
di rinunciare a una parte di sé e aderire alle aspettative familiari di
mantenere un’immagine adeguata, di essere all’altezza, con la minaccia
di penosi sensi di colpa quando non ci riesce.
Non
si fa il processo alla famiglia, né si può dire che certi genitori sono
cattivi, semplicemente ripropongono quello che hanno imparato a loro
volta: i modelli familiari si tramandano di generazione in generazione.
All’università
studiavamo il lavoro dei primi cognitivisti che negli anni ’50
analizzavano le funzioni del cervello umano con l’aiuto degli
elaboratori elettronici. E studiavamo la successiva corrente ecologica
cognitivista che nasce negli anni ’70 dalla quale sono nate tante
teorie per la comprensione della sofferenza umana e tante forme di
psicoterapia. Oggi si parla di almeno venti forme diverse di
psicoterapia cognitiva (o cognitivo-comportamentale)
Chi si avvicina alla psicoterapia cognitiva può incontrare indistintamente uno psicoterapeuta cognitivista standard, costruttivista, post razionalista, o altro ancora.
Non c’è da preoccuparsi, per un paziente non fa differenza un tipo o un altro, anche se ad ogni psicoterapeuta piace pensare che il proprio metodo sia sempre migliore degli altri.
Tutte le scuole hanno in comune l’idea che la sofferenza psichica sia direttamente collegata alla conoscenza maturata nel corso della propria storia,
e l’obiettivo di aiutare le persone a migliorare la propria capacità di
riflettere su se stesse, sui propri stati d’animo e sui propri
pensieri. Aspetti che hanno poi una ricaduta diretta sul comportamento e
sulla capacità di costruire obiettivi e di perseguirli.
Patrizia Mattioli,
Blog de il Fatto Quotidiano
Blog de il Fatto Quotidiano
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