21 giugno 2013

Amavo Freud, ma ho scelto la Psicologia cognitiva

Seduta di fronte al Prof. Jervis per l’esame di Teorie della personalità, speravo che non mi chiedesse il cognitivismo: lo trovavo complicato, non mi piaceva e non riuscivo mai a inquadrare bene l’argomento.
Jervis me lo chiese eccome, passai l’esame con un voto mediocre.
All’epoca ero più affascinata dalla psicoanalisi e dall’interpretazione dei sogni. In verità facevo un po’ fatica a considerarmi in termini di istanze psichiche: l’Es l’Io e il Super Io, di cui parlava Freud. Ma se l’alternativa era quella di equipararmi al computer, come dicevano i cognitivisti, non avevo dubbi: preferivo di gran lunga Freud.
Alla fine dell’università mi sono dovuta ricredere: ho riscoperto il cognitivismo e cominciato a farne parte.
Durante gli studi, non avevo capito il principio di base del cognitivismo per cui nel sintomo la persona esprime il suo modo di vedere la vita, le sue convinzioni, la sua storia.
Prendiamo i disturbi del comportamento alimentare per esempio.
Chi controlla ossessivamente la qualità e quantità di cibo da mangiare, o si lascia andare all’impulso di svuotare il frigo (e lo stomaco a seguire), o mangia in continuazione, “racconta” come si percepisce, che rapporto ha con gli altri, e quanto sente di avere un ruolo attivo in tutta la faccenda. L’attenzione è riposta sul cibo mentre il problema è su ciò che esso rappresenta. Per esempio un banco di prova su cui misurare la capacità/incapacità di tenere sotto controllo i propri bisogni affettivi o di manipolare i giudizi esterni e il corpo è la prova di quanto si sente di esserci riusciti.
Tutto questo si chiama organizzazione di significato personale: è un insieme di schemi mentali, derivati dalle esperienze e conoscenze fatte, che seleziona certe cose e ne lascia altre sullo sfondo: per esempio rende importante l’opinione degli altri a scapito dell’affermazione personale. E’ la diretta conseguenza dei modelli familiari vissuti. Nel nostro caso di modelli familiari in cui si chiede direttamente al bambino “di fare il bravo, o la brava” e indirettamente di rinunciare a una parte di sé e aderire alle aspettative familiari di mantenere un’immagine adeguata, di essere all’altezza, con la minaccia di penosi sensi di colpa quando non ci riesce.
Non si fa il processo alla famiglia, né si può dire che certi genitori sono cattivi, semplicemente ripropongono quello che hanno imparato a loro volta: i modelli familiari si tramandano di generazione in generazione.
All’università studiavamo il lavoro dei primi cognitivisti che negli anni ’50 analizzavano le funzioni del cervello umano con l’aiuto degli elaboratori elettronici. E studiavamo la successiva corrente ecologica cognitivista che nasce negli anni ’70 dalla quale sono nate tante teorie per la comprensione della sofferenza umana e tante forme di psicoterapia. Oggi si parla di almeno venti forme diverse di psicoterapia cognitiva (o cognitivo-comportamentale)
Chi si avvicina alla psicoterapia cognitiva può incontrare indistintamente uno psicoterapeuta cognitivista standard, costruttivista, post razionalista, o altro ancora.
Non c’è da preoccuparsi, per un paziente non fa differenza un tipo o un altro, anche se ad ogni psicoterapeuta piace pensare che il proprio metodo sia sempre migliore degli altri.
Tutte le scuole hanno in comune l’idea che la sofferenza psichica sia direttamente collegata alla conoscenza maturata nel corso della propria storia, e l’obiettivo di aiutare le persone a migliorare la propria capacità di riflettere su se stesse, sui propri stati d’animo e sui propri pensieri. Aspetti che hanno poi una ricaduta diretta sul comportamento e sulla capacità di costruire obiettivi e di perseguirli.

Patrizia Mattioli,
Blog de il Fatto Quotidiano

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