5 luglio 2014

Viaggio dentro al cuore di chi assiste i dementi

GUIDO RODRIGUEZ*
* neurofisiologo, docente universitario

Da sempre ci hanno ripetuto che la famiglia ha un ruolo centrale per assolvere ai compiti assistenziali delle malattie degenerative cerebrali con sintomatologia dementigena; oggi possiamo facilmente constatare come le famiglie siano quasi del tutto abbandonate dalle istituzioni statali e sorrette per quanto possibile solo da un volontariato diffuso ma, del tutto impotente, soprattutto per quanto concerne le necessità di aiuti economici, vista l’enormità delle spese sostenute da chi presta assistenza quasi 24 ore al giorno (circa 40-50 mila euro/anno).
Per anni abbiamo ascoltato le persone che prestano assistenza a malati con demenza ed alcune caratteristiche del sentire sembrano molto comuni. Questo “sentire comune” ha alcune radici nei sintomi stessi della demenza; lungo il decorso della malattia la “regressione” del malato è la costante e con questa il cambiamento di ruolo degli attori del processo assistenziale è una costante. Non ci sono più compiti specifici per il malato, quello che lei o lui faceva e le responsabilità di cui si faceva carico devono ora essere assunte da qualcun altro; è così che ci si chiede costantemente cosa e come fare anche se si sa che è quasi impossibile riempire quel vuoto o recuperare quelle funzioni.
Tra le risposte più naturali e semplici troviamo la “negazione”, sentimento tipico soprattutto nelle fasi iniziali della malattia. La sofferenza così dilaga, invade la famiglia ed anche il malato è colpito perché spesso gli si chiede di continuare ad essere quello che era, a non commettere errori e a non fare tante “sciocchezze”. Ma come accettare i comportamenti aberranti soprattutto in pubblico, come far finta di niente, se lui, stimato componente della città, dal bagno lancia le feci sui passanti?
Sorge una profonda rabbia, a volte odio per quello che il malato ci costringe a sopportare perché ormai sappiamo che nulla possiamo fare per riportarlo indietro; per questo o siamo isolati o ci isoliamo, ci sentiamo in preda all’angoscia per un futuro ancora più buio e ignoto e ci sentiamo sempre più impotenti.
La rabbia può cancellare gli altri sentimenti e prima di tutto l’affettività. Ricordo di una signora che rispetto alla madre malata ci disse: non mi ha mai dato un bacio in tutta la vita ed ora io cosa dovrei fare? Cosa rispondere se quella donna che nel vissuto della figlia è stata capace di non dare amore ed ora pretende sacrifici? Si possono anche provare rabbia per i comportamenti del malato ma non per la sua persona.
La comprensione e l’accettazione; comprensione che quello che fa il malato non è un capriccio o una volontà rivolta contro chi lo assiste; quello che accade è la manifestazione di una malattia che lo ha colpito molto tempo prima e che solo adesso si mostra con tutta la sua drammaticità. Accettazione perché è questa riflessione che può portare a modificare il nostro atteggiamento; non è facile e forse trovare luoghi d’incontro dove altri sperimentano le stesse condizioni può facilitare il percorso.
Ma la rabbia è stata definita anche un buon sentimento rispetto per esempio all’indifferenza o alla completa apatica accettazione della malattia e delle condizioni del malato; la rabbia è una benefica e catartica rivolta contro la malattia, un segno che la nostra volontà si rivolta contro qualcosa che non comprendiamo del tutto ma che ci ha colpito senza alcun avviso, e che si vuole ancora combattere, nella speranza che tutti quei sintomi strani possano essere ancora combattuti con la forza della volontà.
Il senso di colpa si affianca speso all’ansia ed al desiderio di sostituirsi completamente al malato. Il malato è relegato ad un ruolo assolutamente passivo e quello che avrebbe potuto portare ad una stimolazione del cognitivismo residuo viene soppresso da iperattivismo di chi presta le cure.
Serve invece riuscire ad accettare quello che si definisce la perdita del malato per quello che era; si deve trovare il tempo per elaborare il “lutto”; per farlo spesso non bastano solo la forza di volontà di chi assiste, bisogna avere il coraggio di chiedere aiuto a chi è disponibile; associazioni, gruppi, sono esperienze presenti in molti territori, in questa maniera la malattia non diventa il solo punto di riferimento, si può ricominciare a progettare il futuro.
Ed infine la morte del malato mette termine all’angoscia. Ed ora?
La risposta è molto complessa; se da un lato sfugge un grido di liberazione, con una sensazione di sollievo, perché fatica e tormenti sono finalmente finiti, può di nuovo presentarsi un grande vuoto e di nuovo si può cadere nella disperazione.
Come prima detto per l’accettazione anche per questa rottura con il passato si potrà cercare conforto in chi l’esperienza l’ha vissuta ed accettata. E poi sarà il tempo e, se lo si desidera, un impegno verso chi ancora soffre, che permetterà di scoprire appieno quanto la malattia ci ha reso diversi ed quanto sia stata in grado di renderci migliori.

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