L’epidemia da Coronavirus, ci sta mettendo di fronte a una situazione
per diversi motivi inedita, e certamente molto preoccupante. Le scuole
rimarranno chiuse almeno fino al 5 aprile, la nostra libertà di
movimento è drasticamente ridotta, accendiamo la televisione e vediamo
spettacoli senza pubblico, i leader politici stessi si rivelano positivi
al virus , locali che alle diciotto devono chiudere. Intorno poi
abbiamo il grande allarme per la tenuta del sistema sanitario nazionale,
per i posti di rianimazione che sono troppo pochi, per i rischi che
corrono le regioni meno attrezzate dal punto di vista ospedaliero.
Siamo divisi tra diversi ordini di angoscia – una per la salute fisica nostra e delle persone che ci sono care, una per le pesanti ricadute economiche che hanno le norme restrittive per il paese e per le persone,– e una per il senso di oppressione e di minaccia democratica che procurano una serie di norme emergenziali, che ci limitano nelle nostre libertà.
Siamo divisi tra diversi ordini di angoscia – una per la salute fisica nostra e delle persone che ci sono care, una per le pesanti ricadute economiche che hanno le norme restrittive per il paese e per le persone,– e una per il senso di oppressione e di minaccia democratica che procurano una serie di norme emergenziali, che ci limitano nelle nostre libertà.
Tutte queste preoccupazioni hanno un fondamento oggettivo, e quindi
un ancoraggio molto poco emotivo ma con solide aderenze sul piano di
realtà: se non fermiamo il contagio potrebbero esserci delle persone che
non possono essere intubate, e i morti potrebbero essere molti di più
anche per patologie diverse dal coronavirus e sicuramente per fasce di
età più basse rispetto a quelle che oggi sono maggiormente coinvolte
nelle complicanze più gravi.. Di contro la contrazione economica sta da
subito assumendo proporzioni molto preoccupanti, gravi indebitamenti
serie preoccupazioni per come andare avanti, come sfamare le bocche dei
figli. Non è solo una questione di turismo che si ferma, che è una parte
della questione per un paese come l’Italia, ma di filiere produttive
che si interrompono, di un gran numero di persone licenziate, di tutti
quelli che lavoravano al nero o contratti a tempo determinato che ora
stanno col problema della cena. Infine, il decreto di Conte ieri, mette
in campo una restrizione democratica che la pacatezza di questo
presidente del consiglio – che personalmente apprezzo – solo
parzialmente attutisce. Di fatto le misure estreme odorano di regime –
anche se personalmente le trovo purtroppo davvero necessarie. Ma cosa
sarebbe stato, viene da chiedersi, se avessimo avuto un’altra compagine
governativa, e cosa succede se questa non dovesse reggere? Chi ci
garantisce dall’abuso di potere? In un momento in cui non possiamo
manifestare? Anche qui, c’è davvero di che preoccuparsi.
Non posso dire niente, sulla dimensione oggettiva di queste angosce, e
dei problemi concreti a cui sono collegate. Né posso dire molto sui
punti nevralgici che coinvolgono oggettivamente assetti identitari: non
solo è ovvio che si preoccupi la persona immunodepressa o anziana più di
altri, o che sia particolarmente angosciato il ristoratore che deve
decidere cosa fare del suo esercizio, ma è anche altrettanto ovvio che
per esempio un attivista politico di lungo corso guardi alle restrizioni
governative con maggiore perplessità, e che un virologo si accalori in
una discussione con persone che sono già abbastanza prudenti senza le
sue prediche. Posso però come primo suggerimento, per aiutarci a
contenere le reazioni, suggerire di far caso a come le storie personali e
identitarie rendano inevitabile la diversificazione delle reazioni, il
diverso equilibrio delle priorità.
E poi, possiamo ragionare sugli stati emotivi che si ingenerano quando nel proprio pensiero e nel proprio modo di abitare la situazione arrivano quelle emozioni che come dire si gonfiano, gonfiano le nostre reazioni, sconfinano in qualcosa che non è tanto razionale e che intossica il piano relazionale e il piano privato. Quando ci accorgiamo che insomma siamo abitati da una specie di paura magmatica e indifferenziata, che ha in qualche modo a che fare con il coronavirus, le situazioni in corso, ma ci accorgiamo che c’è un che di più, un che di oltre, che esonda la valutazione del dato reale.
E poi, possiamo ragionare sugli stati emotivi che si ingenerano quando nel proprio pensiero e nel proprio modo di abitare la situazione arrivano quelle emozioni che come dire si gonfiano, gonfiano le nostre reazioni, sconfinano in qualcosa che non è tanto razionale e che intossica il piano relazionale e il piano privato. Quando ci accorgiamo che insomma siamo abitati da una specie di paura magmatica e indifferenziata, che ha in qualche modo a che fare con il coronavirus, le situazioni in corso, ma ci accorgiamo che c’è un che di più, un che di oltre, che esonda la valutazione del dato reale.
Per far questo vorrei proporre di far caso a questa cosa, che tutti
noi abbiamo già constatato quando abbiamo parlato per esempio con amici
di un film che ha avuto molto successo. Quando abbiamo parlato con
questi amici di questo film, che era uguale per tutti era lo stesso in
tutte le sale, abbiamo spesso constatato che il modo di raccontarlo dei
nostri interlocutori era molto diverso l’uno dall’altro. La narrazione
del film condiviso variava di tanto: variava per toni della voce,
giudizi di valore, per un verso, ma anche per ordine di comparizione dei
personaggi, e per scelta dei riflettori sui personaggi principali.
Abbiamo constatato che i buoni e i cattivi nei discorsi dei nostri
amici, non sono una categoria stabile, una variabile fissa, e qualche
volta ci siamo divertiti a capire il perché di certe furiose antipatie
altrui – dimenticandoci magari di ispezionare la razio delle nostre.
Spessissimo abbiamo discusso calorosamente, per difendere le nostre
prospettive contro le loro.
Ora a proposito del film distopico che ci troviamo a vivere abbiamo dei motivi ancora più validi della presunta corretta interpretazione – quelle ricadute realistiche che ci sono e di cui abbiamo parlato sopra. Dunque in questo frangente, al problema reale, e all’angoscia simbolica, si somma anche la carica conflittuale che è appannaggio costante di ogni crisi e ogni distopia.
Ora a proposito del film distopico che ci troviamo a vivere abbiamo dei motivi ancora più validi della presunta corretta interpretazione – quelle ricadute realistiche che ci sono e di cui abbiamo parlato sopra. Dunque in questo frangente, al problema reale, e all’angoscia simbolica, si somma anche la carica conflittuale che è appannaggio costante di ogni crisi e ogni distopia.
Il fatto è che ogni trama è un ricettacolo di proiezioni personali, e
la nostra epidemia da coronavirus potrebbe benissimo essere trattata da
un analista come un sogno. Il sogno condiviso potrebbe essere: che ci
troviamo un bel giorno a fronteggiare un male non molto identificato,
moderatamente letale ma comunque pericoloso, del quale ci parla qualcuno
con una voce minacciosa, e per combattere il quale qualcun altro ci
dice che dobbiamo rimanere a casa, e non vedere più nessuno. Nel nostro
sogno compariranno anche diverse categorie di persone, i medici, i
politici, i diversi tipi di obbedienti, e i diversi tipi di
disubbidienti – tra i quali segnaliamo anziani impuniti, adolescenti
resistenti – famiglie amorali. Ci si offre l’occasione di vedere
rappresentate una innumerevole quantità di questioni problematiche che
ci portiamo dentro da diverso tempo. Penso che una cosa buona, che ci
può aiutare, è cercare di capire per bene che cosa di nostro rappresenta
questa storia. Indubbiamente, chi in questo momento dovesse essere in
terapia, avrebbe nella stanza di cura il contesto più adatto per farsi
delle domande del genere. Però farsele ugualmente – eventualmente da
soli – e trovare degli indirizzi può essere di aiuto, perché se si
riesce a indovinare la chiave di lettura emotiva, un po’ la percezione
degli eventi cambia. E l’angoscia si potrebbe attutire. Noi toglieremmo
infatti diciamo, l’acceleratore delle nostre vicende personali. Potremmo
sentirci più lucidi.
Io qui posso fare alcuni esempi.
In primo luogo ogni grande malattia endemica è una buona
rappresentazione simbolica di parti psichiche malate proprie di cui si
teme di non avere il controllo e che si teme in continuazione che ci
possano fagocitare oppure che possano intaccare le nostre risorse, o
anche altre parti relazionali sacre e vulnerabili. Se si mette in campo
questa organizzazione simbolica, e non viene riconosciuta, è facile che
ci si svegli nella notte molto agitati risognandosi il coronavirus. Se
si mantiene lo sguardo fisso sul film e non ci si occupa di cosa evoca
il film l’angoscia potrebbe rimanere costante a un livello molto alto.
E’ un po’ quello che succede quando ci si risognano certe scene di film
horror: l’immagine ha agganciato il mondo interno. In un certo modo,
focalizzandoci solo sull’immagine condivisa fuori della pandemia, e non
su cosa evoca di noi, sulla nostra paura di una epidemia interna,
facciamo un pop’ come quelle amministrazioni pubbliche che stanno
ignorando un problema, mentre dilaga, e diventiamo insomma il Trump del
nostro inconscio. Forse ci sono delle aree turbolente che dovremmo
cominciare a guardare e a prendere in considerazione. Se il vissuto di
angoscia è davvero intollerabile, allora questa vicenda ha slatentizzato
una questione problematica importante che passata la nottata del
contagio occorrerà prendere sul serio in considerazione – magari
contattando uno specialista.
In secondo luogo, siccome sovente Lo Stato con le sue norme e leggi è
un buon ricettacolo di proiezioni genitoriali, (pensiamo a formule come
la “madre patria”) credo che il subire delle regole restrittive possa
in più soggetti evocare fantasmi di parziale disidentificazione con la
famiglia di provenienza, ed evocazioni di una mancata autonomia per cui
scattano dei vissuti di risentimento, di passivizzazione, di subire
delle regole che non si condividono, fino ai casi di azioni per me
scellerate di rottura delle prescrizioni di questa normativa
eccezionale. Persone che si vantano di fare una vita sociale, degli
aperitivi, che organizzano incontri, e che nell’atto di minimizzare la
prescrizione in campo fanno una specie di rievocazione del processo di
contestazione adolescenziale. Questo tipo di azioni mette da una parte
il soggetto in pericolo, lui e i suoi cari – perché appunto ci sono dei
rischi materiali sul piano di realtà – e dall’altra parte non fa
diminuire di un grammo la sensazione di essere prigionieri di una serie
di eventi. Secondo me in questi casi, acquisire informazioni da una
parte e ritirare le proiezioni dall’altra – no lo stato non è la tua
mamma, forse devi vederti delle cose su quel piano – aiuta a sentirsi
maggiormente partecipi, maggiormente cives, maggiormente adulti nel
contesto in questione.
A volte l’angoscia si focalizza – lo noto molto sui social –
individuando dei capri espiatori in gruppi sociali che invece rompono le
regole. Ora non è che io dica che i ragazzini che si vedono tutti
insieme o le famiglie che scendono nel meridione non costituiscano un
problema materiale, dico che se uno scrive quattordici status in un
giorno sul tema dei ragazzini che escono o degli anziani che escono,
diventa evidente che questi gruppi sociali nel nostro sogno condiviso
stanno svolgendo un ruolo, e di ruoli ce ne possono essere molti. Per
esempio possono essere oggetto di invidia, nella loro capacità di
prendere decisioni autonome e sfidare le proiezioni genitoriali di cui
sopra, oppure al contrario ricordare quella libertà tragica e depressiva
del non avere più niente da perdere, che forse certi anziani incarnano
quando dicono di voler uscire lo stesso, o infine la forza di certi
legami che si ricompattano a qualcuno può risultare dolorosa. Il punto
comunque di queste osservazioni, non è tanto ribaltare le ragioni, ma
capire perché delle ragioni risultano così incandescenti.
Un’altra cosa che rende l’atmosfera pesante – soprattutto negli
scambi relazionali, sono le qualificazioni emotive, i toni che vengono
adottati nel parlare della questione. Un’epidemia che procura morte e
senso di pericolo mette in difficoltà e ognuno usa le difese di cui
dispone. Alcuni tendono a essere molto razionali e svalutanti per
esempio. E questo può risultare molto sgradevole perché le persone che
parlano con loro possono sentirsi a loro volta svalutate. Ma questo è il
loro modo per prendersi tempo per avvicinare una cosa che li allarma, o
per mantenere una distanza di sicurezza. Altri invece saranno pervasi
da un’ansia incontenibile e si industrieranno a procurare allarme
nell’altro. Sembrano non avere sazietà finché non hanno la loro angoscia
– è una specie di tentativo di colonizzazione della psiche per delle
parti aggressive in esubero, ma a volte mi pare anche una scivolata
regressiva che cerca nell’altro una risposta rabbiosa che faccia da
contenitore, che aiuti a contenere il senso di caos. Se si riesce a fare
caso allo stile delle proprie risposte emotive, si trae qualche
beneficio, il senso di ansia si attutisce. Parimenti, secondo me siccome
siamo stratificati nelle difese che abbiamo e nei pensieri che abbiamo
riconoscere all’altro un margine di sgradevolezza, un margine di
comportamento che non ci piace, è un po’ come concedere a noi lo stesso
diritto, è un po’ come perdonarci a noi. Dire, quello è il suo modo di
evadere la preoccupazione, aiuta a rendere dentro noi stessi il clima
emotivo più gestibile
Una conclusione.
Questo è il primo di una serie di post che voglio fare sul vivere con il Coronavirus, valutando una serie di difficoltà che si pongono. Successivamente ne vorrei riuscire a fare altri – sulla gestione dei figli – sullo stare confinati a casa – sullo scacco economico e come sopportarlo, almeno per quello che posso offrire io in questo contesto. Non voglio però essere disonesta, e non voglio dire che secondo me non c’è una lettura meno nevrotica di altre. Io credo di non sbagliarmi se dico che quelle tre diverse cause di angoscia, quelle tre cause materiali, la malattia, il collasso economico, e la restrizione politica hanno un reale ordine di grandezza e di gravità per quanto siano tutte e tre molto serie. Penso che davvero la minaccia del contagio sia ancora più grave di quella del collasso economico, e che specie considerando chi c’è ora al governo, la restrizione delle libertà un male minore. Penso davvero che se finiscono i posti in terapia intensiva il paese entra in un’area di malattia morte e crisi che non voglio neanche ipotizzare, e che investirebbe egualmente l’economia anche senza misure restrittive. Per questo, voglio le misure restrittive – e cerco di ragionare su come tollerare il danno economico, perché almeno su una cosa posso cercare di lottare, ed è la salute delle persone che ho intorno. Una chiara distribuzione delle priorità mi fa stare moderatamente più tranquilla.
Questo è il primo di una serie di post che voglio fare sul vivere con il Coronavirus, valutando una serie di difficoltà che si pongono. Successivamente ne vorrei riuscire a fare altri – sulla gestione dei figli – sullo stare confinati a casa – sullo scacco economico e come sopportarlo, almeno per quello che posso offrire io in questo contesto. Non voglio però essere disonesta, e non voglio dire che secondo me non c’è una lettura meno nevrotica di altre. Io credo di non sbagliarmi se dico che quelle tre diverse cause di angoscia, quelle tre cause materiali, la malattia, il collasso economico, e la restrizione politica hanno un reale ordine di grandezza e di gravità per quanto siano tutte e tre molto serie. Penso che davvero la minaccia del contagio sia ancora più grave di quella del collasso economico, e che specie considerando chi c’è ora al governo, la restrizione delle libertà un male minore. Penso davvero che se finiscono i posti in terapia intensiva il paese entra in un’area di malattia morte e crisi che non voglio neanche ipotizzare, e che investirebbe egualmente l’economia anche senza misure restrittive. Per questo, voglio le misure restrittive – e cerco di ragionare su come tollerare il danno economico, perché almeno su una cosa posso cercare di lottare, ed è la salute delle persone che ho intorno. Una chiara distribuzione delle priorità mi fa stare moderatamente più tranquilla.
Lo dico per chiarezza. Daje.
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