Temple Grandin è nata nell’agosto del
1947 a Boston, nel Massachusetts, e la sua è stata la tipica infanzia di
una bambina autistica. Non ha detto una parola fino ai quattro anni,
era ipersensibile al contatto fisico, esplodeva in incontenibili crisi
di rabbia quando qualcuno tentava di abbracciarla. Il suo passatempo
preferito consisteva nel fissare per ore le fibre della moquette, e
sembrava avere problemi a udire le parole per intero. Oggi qualunque
neuropsichiatra le diagnosticherebbe l’autismo nel giro di poche sedute,
ma quando la madre la portò da un neurologo le dissero che aveva un
danno cerebrale e le consigliarono un logopedista perché imparasse a
verbalizzare. Il medico successivo diagnosticò l’autismo di Temple e ne
consigliò caldamente il ricovero.

“Mia madre fu eroica”, ha scritto Temple in quella che verrebbe da chiamare l’autobiografia del suo autismo, Il cervello autistico, “e
scoprì da sé il trattamento standard che i medici usano oggi”. Se
Temple fosse nata pochi anni prima, è probabile che sarebbe stata
spedita in un istituto. Invece sua madre assunse una tata e organizzò le
giornate di Temple perché le presentassero continue sfide da superare.
Le venivano proposti giochi in cui doveva interscambiare il proprio
ruolo con quello della sorella, perché imparasse a distinguere tra sé e
gli altri. Le veniva imposto di sedere correttamente a tavola, di
socializzare con i coetanei, di controllarsi in pubblico.
Ero autorizzata a tornare all’autismo solo un’ora dopo pranzo. Nel resto della giornata dovevo vivere in un mondo non dondolante e non roteante.
In Le regole non scritte delle relazioni sociali,
un vademecum per autistici che Temple Grandin ha compilato insieme al
giornalista Sean Barron, Temple afferma di avere iniziato ad avvertire
la distanza tra sé e gli altri solo durante l’adolescenza; la sua
infanzia era stata piena di rinforzi positivi e successi personali che
l’avevano resa una ragazzina certo eccentrica, ma anche attiva e sicura
di sé. Era creativa, aveva dei punti di forza e una rete di amicizie.
L’approccio della madre, per quanto sia in netto contrasto con le teorie
più moderne – più incentrate sull’accettazione del sé autistico che con
l’adattamento a un sistema interpretativo e comunicativo divergente –
l’ha aiutata a non perdersi nel proprio mondo autistico, le ha insegnato
ad avere a che fare con la realtà esterna. L’ha resa un’adulta
funzionale.
Negli USA le narrazioni con
protagonisti – e spesso narratori – autistici sono aumentate a dismisura
nel corso dell’ultimo decennio, arrivando quasi a definire un genere a
se stante. Di questi romanzi, molti sono young adult in cui liceali
ambosessi imparano a mettere in atto con tutte le difficoltà del caso le
prime libertà dell’adolescenza. Dopo il successo internazionale di Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte
(Mark Haddon, 2003) i titoli disponibili sono aumentati al punto che li
si affronta da tutte le prospettive semiotiche possibili, e gli
accademici si pongono problemi quali la sottorappresentazione di
autistici che non siano ad alto funzionamento – come gli Asperger – e la
sovrabbondanza di personaggi troppo positivi, che trasmettono
un’immagine autistica politicamente corretta e poco realistica. In
Italia la pubblicazione di romanzi incentrati su protagonisti autistici
non è – a livello di numeri – paragonabile alle letterature anglofone,
anche se i titoli, specialmente tradotti, escono regolarmente; soltanto
tra il 2018 e il 2019 sono usciti Come muoversi tra la folla di Camille Bordas, Argo il Ragazzo Detective di Joe Meno e Un ragazzo d’oro di
Eli Gottlieb. La produzione autoctona è sicuramente molto meno vivace,
se parliamo in termini numerici, ma pure nella sua esiguità presenta
delle peculiarità ricorrenti. Il racconto dell’individuo autistico come
parte di una struttura famigliare è una di queste, e facciamo appena in
tempo a registrarlo che già stiamo per trovarlo mutato: quello che
stanno vivendo le famiglie con figli neuroatipici non potrà che cambiare
il racconto che ne fanno gli scrittori.
La quarantena è difficile per le
famiglie “normali”, durissima per quelle disfunzionali, insopportabile
per quelle che hanno al proprio interno un membro con esigenze
specifiche – disabilità nel complesso, disturbi mentali più o meno
invalidanti – attorno alle cui problematiche ruota il sistema-famiglia. I
neuroatipici si vedono negare di colpo la quotidianità rassicurante
della routine, le famiglie che non possono più appoggiarsi al sostegno
dei centri diurni, degli educatori e del personale infermieristico le
cui competenze vengono messe al servizio dell’emergenza sanitaria. A
migliaia di famiglie che già tiravano avanti a fatica è richiesto uno
sforzo ancora maggiore, e senza un sostegno tangibile. Da un momento
all’altro il sistema-famiglia è stato sconvolto, non ci sono soluzioni
in vista né proposte di alternative specificamente tarate per le
esigenze delle famiglie in difficoltà che, come tutte le altre, non
possono fare altro che aspettare – e sperare di non crollare. Quando la
quarantena sarà finita, il racconto della famiglia nella narrativa
italiana, e ancora di più quello della famiglia in cui sia presente un
neuroatipico, sarà inevitabilmente cambiato.
L’antropologo Claude Lèvi-Strauss
definisce “atomo di parentela” l’insieme dei legami di filiazione, di
consanguineità e di affinità – conseguenti al matrimonio – che
costituiscono la struttura elementare del nucleo famigliare,
un’istituzione universale presente con poche variazioni in qualsiasi
cultura. La famiglia è il gruppo sociale primario con cui l’individuo
viene a contatto e dal quale non potrà mai prescindere; anche
presupponendo una radicale contrapposizione con la famiglia di nascita,
quella rimane l’ineludibile punto di partenza della persona che
diventeremo. Può essere una benedizione o una condanna, – nel mondo
della letteratura, di solito è la seconda.
La quarantena è difficile per le famiglie “normali”, durissima per quelle disfunzionali, insopportabile per quelle che hanno al proprio interno un membro con esigenze specifiche.
L’attaccamento alla famiglia è una
componente imprescindibile del nostro substrato culturale, in un eccesso
che si ritrova nell’immagine ridicolizzata di un italiano bamboccione
“attaccato alle gonne della mamma” fino alla geriatria, e nel racconto
di generazioni incapaci di emanciparsi emotivamente ed economicamente
dai propri genitori. Uno stereotipo che si rifà a una mitizzazione
estrema, forse facilitata da una serie di convergenze storiche o
geografiche; volendo, potremmo analizzare quelle culture che condividono
lo stigma dell’attaccamento materno – la madre castrante e
iperprotettiva è un topos
della letteratura ebraica, le famiglie numerose e invadenti di quella
irlandese – per capire se le similarità tra gli stereotipi possono
rimandare a una stessa origine.
Se ti abbraccio non aver paura
di Fulvio Ervas è il romanzo italiano più famoso sull’autismo, un caso
letterario tradotto in tutto il mondo dal quale Gabriele Salvatores ha
tratto la sua pellicola più recente, Tutto il mio folle amore. Nell’estate del 2012 era l’inaspettato caso editoriale che leggevano tutti, libro dell’anno di Fahrenheit.
Se ti abbraccio non aver paura
è un romanzo di formazione e di viaggio ispirato all’esperienza estrema
di Franco e Andrea, così come lo stesso Franco l’ha raccontata a Ervas.
Franco è padre di Andrea, un ragazzo autistico di diciassette anni.
Comunicano poco a voce, qualcosa di più sul programma di scrittura sul
pc di Andrea. Franco non si capacita della vita a metà cui vede
condannato il figlio, e decide di proporgli un viaggio soltanto loro
due, gli Stati Uniti in moto e poi giù verso l’America del Sud, ad
allargare i propri orizzonti, lontani dalla rassicurante zona di comfort
di Andrea. È un’avventura nel vero senso della parola, perché ogni
tappa è piena di incognite e ipotesi di disastro; Franco è il più
preoccupato dei due, teme che Andrea si possa perdere, che possa
spaventarsi, che stimoli troppo forti possano convincerlo a chiudersi
ancora di più in se stesso. È un’esperienza di crescita, forse, più per
lui che per Andrea, il cui punto di vista compare di tanto in tanto in
conversazioni telegrafiche digitate sulla tastiera, da cui risulta
chiara la sua visione lucida e coerente, anche sulle proprie stranezze;
tocca spesso la pancia delle persone, in qualche modo lo rassicura.
Eppure sa che molti potrebbero non prenderla bene, e quando il padre
glielo fa notare – per iscritto – dice che ogni tanto si sfida a
impedirsi di farlo, e di protrarre talvolta l’attesa finché non diventa
insostenibile, in una battaglia interiore di cui tace con chiunque,
anche col padre.
In Il cervello autistico
Temple Grandin racconta del suo incontro con Tito Rajarshi
Mukhopadhyay, uno scrittore indiano che soffre di autismo classico, la
stessa grave forma che ha colpito Andrea, e come molti autistici
classici non parla e ha un controllo motorio limitato.
Incontrai Tito in una biblioteca medica di San Francisco. La sala era silenziosa, l’atmosfera tranquilla, non c’erano distrazioni. Il colloquio riguardò soltanto me, Tito e la sua tastiera. Gli mostrai un dipinto con un astronauta che montava un cavallo. “Apollo 11 su un cavallo” digitò rapidamente.
Poi andò su e giù per la biblioteca dimenando le braccia. Quando tornò alla tastiera, gli mostrai l’immagine di una mucca.
“Queste in India non le mangiamo” digitò.
Poi andò su e giù per la biblioteca dimenando le braccia. […] Quello di cui ero stata testimone era il Sé Agente di Tito, il Sé che il mondo esterno vede: un ragazzo che ruota su sé stesso, si agita, si dimena. Questo è anche il Sé che Tito vede. […] Il Sé agente va su e giù per la biblioteca dimenando le braccia. Il Sé pensante osserva il Sé agente che va su e giù dimenando le braccia.
La descrizione del comportamento di
Tito combacia con quello di Andrea, che perde talvolta il controllo
delle proprie azioni, come se il Sé pensante fosse troppo stanco e
affaticato per mantenere un controllo costante sul corpo che abita, un
Sé agente che si ribella.
Tolte le conversazioni telegrafiche
col padre, la visione del mondo – e di se stesso – di Andrea non
traspare spesso sulla pagina, tutt’altro. La voce narrante appartiene a
Franco, che continua disperatamente a cercare un contatto, di fare
proprie le prospettive di Andrea, in modo da stabilire un rapporto
padre-figlio che sia più di quello tra un malato e un assistito. Franco
cerca per il figlio quasi maggiorenne un’emancipazione che ai suoi
stessi occhi risulta impossibile; è Franco a impazzire di preoccupazione
quando Andrea si allontana, che teme il peggio quando restano separati
troppo a lungo. Andrea ride, sorride, si chiude nel suo silenzio quando
ne sente la necessità, capace di riconoscere il bisogno di prendersi una
pausa e di regolarsi di conseguenza, mentre il padre fuori si strugge.
Il paradigma è ribaltato rispetto alle narrazioni più classiche; non è
l’autistico a combattere per uscire dal suo mondo, ma un padre che cerca
di raggiungere il figlio nel suo autismo.
La manutenzione dei sensi
di Franco Faggiani è un romanzo del 2018 in cui di nuovo assistiamo al
racconto del rapporto tra un padre e il figlio autistico adolescente dal
punto di vista del primo. Il narratore è Leonardo, vedovo di mezza età
con una figlia adulta che sta per trasferirsi a Boston per lavoro. È
stata lei a convincerlo ad accogliere in casa con loro Martino, ai tempi
otto anni e un carattere scontroso. Sono poi state le autorità
scolastiche a scoprire che Martino rientra nell’angolo estremo della
funzionalità dello spettro autistico: soffre della sindrome di Asperger,
e questo pone problemi inediti alla genitorialità di Leonardo, che
tuttavia fa del suo meglio. Frequenta psicologi e neuropsichiatri, vuole
sapere cosa aspettarsi da Martino, come è meglio trattarlo, quali
difficoltà potrebbe incontrare. Alla partenza della figlia per Boston,
decide di realizzare un sogno che aveva condiviso con la moglie, e fa
restaurare una tenuta nella Val di Susa che avevano adocchiato decenni
prima. Si trasferisce con Martino quando lui deve iniziare a frequentare
le superiori e le cose per loro, tutto sommato, vanno bene. Le
difficoltà interazionali e sociali con cui Martino deve scontrarsi non
sono le stesse di Andrea – la barriera che lo separa dal mondo esterno è
più facile da scavalcare, la sua comprensione delle norme sociali è più
sviluppata – e i suoi modi eccentrici e scostanti trovano un riscontro
nella vita di montagna, soprattutto nella figura di Augusto, un anziano
pastore con cui stringerà una sincera amicizia.
Il fulcro del romanzo è il legame tra
Leonardo e Martino, ma i due sono abbastanza indipendenti da vivere le
proprie vite parallelamente, incontrandosi nel mezzo per scoprire come
tradursi a vicenda. Benché non sia un legame nato sotto i migliori
auspici – non fosse stato per l’insistenza della figlia, Leonardo
avrebbe fatto volentieri a meno di accogliere Martino – è forte e saldo,
e se Leonardo fa fatica a esprimersi, col suo carattere chiuso e
riservato, che in un certo senso lo avvicina a Martino, quest’ultimo
dialoga con Leonardo senza filtri o freni di circostanza; consapevole di
quello che rischia di dividerli – una familiarità putativa, un disturbo
che tocca immancabilmente la sfera sociale e affettiva – Martino cerca
con Leonardo un dialogo diretto, aperto, più saggio del padre nel
riconoscere la pericolosità di una comunicazione esitata.
We are family
è il terzo romanzo di Fabio Bartolomei, uscito per edizioni e/o nel
2013. La componente familiare appare imprescindibile già dal titolo e
rimane centrale per tutto il romanzo, fine ultimo delle azioni del
protagonista e narratore, Almerico. Almerico ha iniziato le scuole
elementari in anticipo e ha quattro anni nel 1971, quando i genitori
vengono chiamati a colloquio dalla maestra, che inizia a enumerare le
sue difficoltà a interagire coi compagni e il suo comportamento
eccentrico, per poi passare, rassicurante, a tessere le lodi della sua
intelligenza prodigiosa. Almerico è un genio, è chiaro fin da subito.
Per quanto scanzonato, il suo eloquio è davvero forbito per essere
quello di un bambino prescolare. La sua peculiarità in famiglia è stata
presto accettata, le sue stranezze integrate perfettamente nel
funzionamento della struttura familiare. Ha una sorella maggiore con la
quale va tutto sommato d’accordo, benché ci siano degli screzi. Tra le
mura di casa, Almerico se la cava – pur con le sue difficoltà, le sue
fissazioni, il ricorso a un ricco mondo immaginario che comunque non
risulta strano, considerata l’età. Origlia la conversazione dei genitori
la sera del colloquio con la maestra, e qualcosa dentro di lui si fissa
sulle loro conclusioni rassicuranti: “Con le doti che ha è destinato a
fare grandi cose”, “Uno come lui potrebbe salvare il mondo”, e decide,
con eroica e ingenua presunzione, di prendere sulle spalle le sorti del
pianeta, a cominciare dalla sua famiglia.
Almerico non riceve mai una diagnosi
soddisfacente per la sua condizione; viene portato a colloquio da
professionisti, e origlia i genitori dire che potrebbe essere stata una
caduta a provocargli un danno cerebrale, una scena che ha luogo a
romanzo già iniziato, quando le sue stranezze sono comprovate già da
decine di pagine. La seconda di copertina preannuncia misteriosamente
che “lui nemmeno lo sa, resterà bambino tutta la vita”, senza accennare
chiaramente a un disturbo mentale né a un danno neurologico. Viene da
chiedersi se l’autore avesse mai incrociato il nome di Temple Grandin,
venendo a conoscenza di quella stessa diagnosi, un danno cerebrale
dovuto a una caduta.
Le analogie tra l’esperienza di
Temple e quella di Almerico proseguono, e non soltanto per similarità
sintomatica. Entrambi appartengono a famiglie molto presenti, e hanno
figure genitoriali solide che riescono a posizionare le basi di
personalità forti, con una grande fiducia nelle proprie capacità.
Almerico ha un’immagine idealizzata della propria famiglia, e crede fino
all’età adulta alle bugie buone che gli vengono raccontate. Il padre è
un autista di autobus con la terza media, ma lui è convinto che quello
sia solo il primo passo di una futura carriera aerospaziale, la madre è
casalinga perché si prepara a prendere il comando della base terrestre.
Il romanzo è imbevuto di questioni di classe, ingiustizia sociale,
critiche al sistema economico. La voce di Almerico, geniale ma ingenuo,
tende ad appiattire un discorso complesso pieno di fattori e principi
spesso contrastanti. L’autore è solito scrivere opere leggere e
disimpegnate nello stile, in cui tematiche sociali di un certo spessore –
la crisi economica e la pervasività della mafia in Giulia 1300 e altri miracoli (2011), l’alienazione degli anziani in La banda degli invisibili
(2012) e così via – vengono affrontate con chiarezza didascalica, le
voci narranti si esprimono con semplicità e i paragrafi si interrompono
spesso con una battuta. La complessa impalcatura narrativa di We are family,
in cui al racconto esplicito di Almerico si affianca una lettura tra le
righe di ciò che lui non riesce a comprendere, è facilitata dall’uso di
un narratore soltanto parzialmente affidabile, che riesce a spostare
della misura necessaria la tolleranza dell’improbabile e la sospensione
dell’incredulità del lettore.
Buona parte della narrativa straniera è più interessata a raccontare il travaglio dell’individuo autistico nell’approccio col mondo esterno piuttosto che la sua dimensione famigliare.
In tutti e tre i romanzi, l’autismo
viene raccontato principalmente nel – e in funzione del – contesto
famigliare, un approccio interpretativo preminente del tema nella
letteratura italiana. Non che le letterature straniere manchino di
esplorare l’universo complicato dei rapporti famigliari in relazione a individui autistici; in Come muoversi tra la folla
di Camille Bordas (2019), il protagonista undicenne Isidore racconta la
difficile e bizzarra quotidianità della sua famiglia immersa nello
spettro; in A bocca chiusa
non si vedono i pensieri di Benjamin Ludwig (2017), dove la
protagonista è una ragazzina autistica incapace di far parte fino in
fondo della sua famiglia adottiva, intrappolata nell’incognita di quello
che ne è stato di quella di nascita; anche nel celeberrimo Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte
di Mark Haddon (2003) il filo della trama segue l’involontario
rovistare del protagonista nei segreti della sua famiglia. Buona parte
della produzione estera pare tuttavia più interessata a raccontare il
travaglio dell’individuo autistico nell’approccio col mondo esterno
piuttosto che la sua dimensione famigliare, e si tratta spesso di
narrazioni incentrate sul difficile periodo dell’adolescenza, l’inizio
dell’emancipazione.
Se ti abbraccio non aver paura e La manutenzione dei sensi
spiccano per un evidente elemento in comune, il fatto che siano
narrazioni in prima persona di padri di figli autistici, seppure
lontanissimi per gravità del disturbo. Mentre la quasi totalità delle
narrazioni estere racconta l’autismo dalla prospettiva spesso in prima
persona dell’individuo nello spettro, è dagli occhi dei padri – Franco e
Leonardo – che osserviamo il comportamento dei figli e la relazione coi
genitori-narratori. Andrea e Martino comunicano – e Andrea lo fa più di
quanto si aspetterebbe il padre – in modalità indirette, filtrate dallo
sguardo narratore dei genitori. La questione è diversa per Casimiro,
che in We are family
prende la parola con sfacciataggine fin dalla prima riga; eppure, anche
nel suo caso, assistiamo a un racconto soltanto parzialmente
consapevole da parte di un narratore all’oscuro di elementi importanti
della storia; nessuno condivide con lui volontariamente informazioni
sulla sua condizione, sullo stato economico in cui versa la famiglia, le
notizie più spiazzanti. La visione d’insieme di Casimiro è incompleta,
oscurata da un filtro che ne limita il controllo sul racconto, non
troppo dissimile da quello che offre ad Andrea e a Martino la
possibilità di essere raccontati soltanto come punto centrale del
racconto di un altro.
L’opera letteraria riflette l’idea di
realtà di chi la scrive, una pluralità di voci raccolte tra
l’evoluzione dell’individuo e le trasformazioni della società che lo
include. La transizione verso l’indipendenza propria dell’età adulta è
un elemento ancora da esplorare all’interno della nostra letteratura,
come se dopotutto il nostro substrato culturale non considerasse poi
così rilevante il distacco dell’individuo dall’ambiente protettivo di un
nucleo famigliare.
Senza nulla togliere alla
testimonianza che Fulvio Ervas dà dell’esperienza di Franco e Andrea né
al racconto che dell’autismo hanno fatto Fabio Bartolomei e Franco
Faggiani – racconti rispettosi in quanto consapevoli, informati e non
patetici – viene da chiedersi quando leggeremo di una Temple Grandin
nata tra Asti e Macerata, e di come il suo cervello autistico abbia
impattato contro una realtà neurotipica per evolversi – senza perdersi o
peggio omologarsi – in un adulto indipendente e funzionale. È una
letteratura che deve ancora venire, uno stadio precedente a quello
embrionale; terrà conto, forse, della condizione attuale, la staticità
che ci intrappola tutti e che colpisce certe famiglie più di altre. La
quarantena potrebbe diventare un punto di rottura, il culmine di una
crisi già presente e conclamata, il balzo del neuroatipico dalla casa
diventata prigione verso un mondo di cui ancora non ci azzardiamo a
immaginare la forma.
Erica Casale
gestisce il lit-blog La Leggivendola e collabora con L'Indiscreto, Rivista Spore e Not
Articolo tratto da IL TASCABILE
gestisce il lit-blog La Leggivendola e collabora con L'Indiscreto, Rivista Spore e Not
Articolo tratto da IL TASCABILE
Drawing Autism: A Visual Tour of the Autistic Mind from Kids and Celebrated Artists on the Spectrum
Il 2 aprile, XII Giornata Mondiale della Consapevolezza sull'Autismo,
nonostante l'emergenza coronavirus, alcuni monumenti importanti in
Italia e nel mondo si tingono di blu.
Torna la raccolta fondi #sfidAutismo20 di FIA - Fondazione Italiana Autismo
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