Intervista di Gianluca D'Amico a Giancarlo Dimaggio,
psichiatra e psicoterapeuta, socio fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC).
psichiatra e psicoterapeuta, socio fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC).
D’Amico: Quali sono le grandi differenza tra terapia dal vivo e terapia online?
Dimaggio: Nella
videoterapia vengono a mancare una serie di variabili: il corpo fisico,
l’ambiente sensoriale, la postura del terapeuta, l’abbigliamento,
l’arredamento, la distanza interpersonale, il modo in cui sono
posizionate sedie e poltroncine, il modo in cui ci regoliamo nella
prosodia e nella gestualità, gli odori dello studio e i rumori
ambientali.
Viene a mancare quella che potremmo chiamare interregolazione corporea.
Mancando di tutti questi elementi è
necessario che il terapeuta rifletta, più di prima, su come si presenta
al paziente e questo richiede una sorta di attenzione di tipo
“registico”: una riflessione sul tipo di inquadratura e quindi di
presenza che stiamo offrendo al paziente. Possiamo, per esempio, dando
per scontato questo aspetto, presentare il viso, il collo e la parte
superiore del petto; e questo non è necessariamente una buona cosa
perchè taglierebbe o renderebbe monca tutta la dimensione della prosodia e della gestualità.
Quello che suggerisco è di utilizzare il canale della videoterapia, in
questo preciso momento storico, posizionando il computer ad una maggiore
distanza che permetta, attraverso un’inquadratura più ampia, il
recupero della dimensione corporea. Venendo a mancare l’intercorporeità è
necessario che almeno si riguadagnino gli aspetti legati a prosodia e
gestualità.
E’ importante, inoltre, riflettere su
quale parte del nostro ambiente domestico andiamo a presentare al
paziente. Si tratta di una sorta di Self-disclosure involontaria:
è come se stessimo svelando qualcosa del nostro mondo privato; non si
tratta necessariamente di un limite ma dobbiamo essere consapevoli di
questa nostra scelta, che può diventare oggetto di riflessione. E’
necessario considerare questa particolare self-disclosure involontaria
come nuovo e importante elemento di metacomunicazione.
Un altro aspetto fondamentale riguarda il feedback visivo
che hanno sia paziente che terapeuta che, in queste particolari
condizioni, hanno la possibilità di guardarsi alla videocamera; in
qualche modo ci guardiamo nell’angoletto della videochiamata, ed è un
feedback a cui non siamo abituati, non siamo abituati a guardarci
durante il colloquio. Questo, da un lato, può incrementare una tendenza
all’automonitoraggio con valenza preoccupata, di colpa,
vergogna, imbarazzo, oppure può portare ad una modulazione artificiale
del nostro modo di parlare; a quel punto è come se ci stessimo truccando
per apparire meglio, cosa che non faremmo se non avessimo un feedback
immediato di questo tipo. Questo può essere un fattore interferente che
può causare problemi ai pazienti: alcuni lo dicono esplicitamente
“guardi, io mi vedo quindi è difficile…”. Nello stesso tempo però,
questo automonitoraggio visivo può rappresentare una ricchezza anche
per il terapeuta che può imparare a guardarsi e a sfruttare questo
feedback “guardi mi rendo conto, in questo momento, che ho questa
espressione facciale…”. Potrebbe essere un’opportunità anche per il
paziente: si può fare dal vivo quello che la collega Michela Alibrandi
fa già con la Self Mirroring Therapy,
sollecitando l’automonitoraggio del paziente: “guardi, ha notato che ha
quella particolare espressione mentre mi dice questo?”.
D’Amico: Nonostante le particolarità del mezzo usi tecniche bottom-up? E se sì, quali? E con quali accorgimenti?
Dimaggio: Le tecniche bottom-up sono e restano una componente della Terapia Metacognitvia Interpersonale (TMI)
anche in questa condizioni. Consiglio l’utilizzo di un’inquadratura più
ampia che permetta al terapeuta di osservare il corpo del paziente.
Gli esercizi mindfulness,
per esempio, sono praticabili. Il paziente si trova necessariamente,
dato il contesto particolare, a fare i conti con elementi dell’ambiente
familiare (suoni, odori, percezioni visive a valenza sia positiva che
negativa). Elementi che possono rappresentare dei trigger
significativi utili a far emergere lo schema con tutti i suoi
elementi dolorosi (cognitivi affettivi e corporei). In queste situazioni
può essere utile fare di questi trigger e del relativo dolore
che scatenano un oggetto di riflessione, permettendo, attraverso alcune
tecniche come quelle della bipartizione e tripartizione del campo
attentivo, di placare l’arousal legato proprio all’attivazione di un
determinato schema e immagine nucleare.
Le tecniche di immaginazione
prevedono, già in origine, una certa quota di assenza del terapeuta,
dato che si chiede al paziente di chiudere gli occhi e di immergersi nel
suo mondo interno. Per cui, rimangono assolutamente praticabili nella
terapia online.
Non possiamo, date le restrizioni a cui
siamo sottoposti in questo periodo, sollecitare il sistema esploratorio
del paziente nel mondo reale; però possiamo sostituire gli esperimenti
comportamentali di sospensione delle usuali strategie con un tipo di
immaginazione che possiamo chiamare progettuale e proattiva: si tratta
di un’immaginazione guidata
non su eventi passati ma su futuri possibili scenari in cui il paziente
fa lo sforzo di sospendere le sue strategie abituali per costruire
schemi relazionali diversi sperimentabili, una volta terminata questa
particolare clausura che tutti stiamo vivendo, nel mondo reale.
L’altro giorno ho tentato con una paziente (che era in quel momento da sola a casa) una tecnica drammaturgica
che aveva a che fare col prendere le distanze dal genitore sofferente.
Questa persona ha difficoltà a staccarsi dai genitori a causa di sensi
di colpa molto profondi e allo stesso tempo a causa di una forte
preoccupazione per il genitore sofferente. L’esercizio era quello di
visualizzare il genitore in un momento di sofferenza, soffermarsi
sull’emozione dolorosa e poi staccarsi dai genitori, voltar loro le
spalle e andare da un’altra parte malgrado la morsa della preoccupazione
e del senso di colpa. Le ho chiesto di mettersi a distanza dalla
telecamera in modo tale che la potessi vedere in piedi, di immaginare
dov’erano i genitori, contattare il dolore e poi andare da un’altra
parte. La paziente, a quel punto, è letteralmente uscita dalla stanza,
ha aperto la porta sbattendola dietro di sé ed è andata in un’altra
stanza e solo dopo una trentina di secondi è ritornata. A quel punto le
ho fatto notare che si era letteralmente allontanata lasciando lì sua
madre sofferente, chiudendosi la porta alle spalle. Da questa
riflessione sono emerse nuove sfumature di dolore: non più il senso di
colpa legato a possibili dinamiche di attaccamento invertito, quanto la
sofferenza legata al non poter far niente per il dolore dei genitori ed
anche una certa quota di solitudine. È probabile che aver fatto questa
esperienza di immaginazione guidata tra le proprie mura domestiche abbia
contribuito a creare questa particolare e fruttuosa “condizione
sperimentale”.
D’Amico: Come organizzi il
set-setting? (come ti comporti, per esempio, in relazione ad eventuali
ritardi e in relazione alla scelta del luogo fisico del paziente?)
Dimaggio: Se il paziente
tarda di solito faccio uno squillo o mando un messaggio. Non ci sono
grandissime modifiche rispetto al setting usuale.
Il luogo scelto dal paziente ci indica
qual è lo spazio in cui la terapia si può svolgere per loro: una stanza
sicura per esempio oppure è possibile che escano di casa nel caso
abbiamo la legittima necessità di ricreare uno spazio unico che permetta
di non essere ascoltati da altre persone (in macchina o passeggiando).
Dobbiamo fare i conti ed essere preparati
alla condivisione di emozioni e reazioni stressanti dovute
all’irruzione del reale nel setting terapeutico:
l’altro giorno, per esempio, una mia paziente ha assistito al
prelevamento di una signora anziana da parte di un’ambulanza, cosa che
ha permesso di condividere le emozioni di tristezza e preoccupazione
legate a quella scena.
Varcare la soglia del setting
terapeutico significa, in condizioni usuali, entrare in una sorta di
mondo straordinario, con le sue particolari regole. Si tratta di
costruire uno spazio mentale e fisico unico che permetta l’accesso alla
dimensione del come se. In videoterapia
risulta impossibile ricreare lo stesso mondo straordinario che è il
setting psicoterapeutico: i pazienti scelgono, per necessità, luoghi di
vita quotidiana; per cui si resta bloccati in una sorta di mondo
abituale che non permette di allentare la presa dal flusso quotidiano
dell’esperienza. Per cui organizzarsi in funzione della seduta può
risultare, per il paziente, meno immediato e diretto e per questo motivo
non disdegno, a volte, un messaggio di promemoria.
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