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2 aprile 2020

Il cervello autistico nella famiglia (#sfidautismo20)


Temple Grandin è nata nell’agosto del 1947 a Boston, nel Massachusetts, e la sua è stata la tipica infanzia di una bambina autistica. Non ha detto una parola fino ai quattro anni, era ipersensibile al contatto fisico, esplodeva in incontenibili crisi di rabbia quando qualcuno tentava di abbracciarla. Il suo passatempo preferito consisteva nel fissare per ore le fibre della moquette, e sembrava avere problemi a udire le parole per intero. Oggi qualunque neuropsichiatra le diagnosticherebbe l’autismo nel giro di poche sedute, ma quando la madre la portò da un neurologo le dissero che aveva un danno cerebrale e le consigliarono un logopedista perché imparasse a verbalizzare. Il medico successivo diagnosticò l’autismo di Temple e ne consigliò caldamente il ricovero.
Eppure oggi Temple è una professoressa associata alla Colorado State University, dove insegna progettazione di allevamenti. È anche una scrittrice affermata di opere sull’autismo, indirizzate sia ai professionisti che se ne occupano che a individui nello spettro, che possono trovare nei suoi libri una serie di utili linee guida per gestire la propria neurodiversità in relazione al mondo.
“Mia madre fu eroica”, ha scritto Temple in quella che verrebbe da chiamare l’autobiografia del suo autismo, Il cervello autistico, “e scoprì da sé il trattamento standard che i medici usano oggi”. Se Temple fosse nata pochi anni prima, è probabile che sarebbe stata spedita in un istituto. Invece sua madre assunse una tata e organizzò le giornate di Temple perché le presentassero continue sfide da superare. Le venivano proposti giochi in cui doveva interscambiare il proprio ruolo con quello della sorella, perché imparasse a distinguere tra sé e gli altri. Le veniva imposto di sedere correttamente a tavola, di socializzare con i coetanei, di controllarsi in pubblico.

Ero autorizzata a tornare all’autismo solo un’ora dopo pranzo. Nel resto della giornata dovevo vivere in un mondo non dondolante e non roteante.
In Le regole non scritte delle relazioni sociali, un vademecum per autistici che Temple Grandin ha compilato insieme al giornalista Sean Barron, Temple afferma di avere iniziato ad avvertire la distanza tra sé e gli altri solo durante l’adolescenza; la sua infanzia era stata piena di rinforzi positivi e successi personali che l’avevano resa una ragazzina certo eccentrica, ma anche attiva e sicura di sé. Era creativa, aveva dei punti di forza e una rete di amicizie. L’approccio della madre, per quanto sia in netto contrasto con le teorie più moderne – più incentrate sull’accettazione del sé autistico che con l’adattamento a un sistema interpretativo e comunicativo divergente – l’ha aiutata a non perdersi nel proprio mondo autistico, le ha insegnato ad avere a che fare con la realtà esterna. L’ha resa un’adulta funzionale.

Negli USA le narrazioni con protagonisti – e spesso narratori – autistici sono aumentate a dismisura nel corso dell’ultimo decennio, arrivando quasi a definire un genere a se stante. Di questi romanzi, molti sono young adult in cui liceali ambosessi imparano a mettere in atto con tutte le difficoltà del caso le prime libertà dell’adolescenza. Dopo il successo internazionale di Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte (Mark Haddon, 2003) i titoli disponibili sono aumentati al punto che li si affronta da tutte le prospettive semiotiche possibili, e gli accademici si pongono problemi quali la sottorappresentazione di autistici che non siano ad alto funzionamento – come gli Asperger – e la sovrabbondanza di personaggi troppo positivi, che trasmettono un’immagine autistica politicamente corretta e poco realistica. In Italia la pubblicazione di romanzi incentrati su protagonisti autistici non è – a livello di numeri – paragonabile alle letterature anglofone, anche se i titoli, specialmente tradotti, escono regolarmente; soltanto tra il 2018 e il 2019 sono usciti Come muoversi tra la folla di Camille Bordas, Argo il Ragazzo Detective di Joe Meno e Un ragazzo d’oro di Eli Gottlieb. La produzione autoctona è sicuramente molto meno vivace, se parliamo in termini numerici, ma pure nella sua esiguità presenta delle peculiarità ricorrenti. Il racconto dell’individuo autistico come parte di una struttura famigliare è una di queste, e facciamo appena in tempo a registrarlo che già stiamo per trovarlo mutato: quello che stanno vivendo le famiglie con figli neuroatipici non potrà che cambiare il racconto che ne fanno gli scrittori.
La quarantena è difficile per le famiglie “normali”, durissima per quelle disfunzionali, insopportabile per quelle che hanno al proprio interno un membro con esigenze specifiche – disabilità nel complesso, disturbi mentali più o meno invalidanti – attorno alle cui problematiche ruota il sistema-famiglia. I neuroatipici si vedono negare di colpo la quotidianità rassicurante della routine, le famiglie che non possono più appoggiarsi al sostegno dei centri diurni, degli educatori e del personale infermieristico le cui competenze vengono messe al servizio dell’emergenza sanitaria. A migliaia di famiglie che già tiravano avanti a fatica è richiesto uno sforzo ancora maggiore, e senza un sostegno tangibile. Da un momento all’altro il sistema-famiglia è stato sconvolto, non ci sono soluzioni in vista né proposte di alternative specificamente tarate per le esigenze delle famiglie in difficoltà che, come tutte le altre, non possono fare altro che aspettare – e sperare di non crollare. Quando la quarantena sarà finita, il racconto della famiglia nella narrativa italiana, e ancora di più quello della famiglia in cui sia presente un neuroatipico, sarà inevitabilmente cambiato.
L’antropologo Claude Lèvi-Strauss definisce “atomo di parentela” l’insieme dei legami di filiazione, di consanguineità e di affinità – conseguenti al matrimonio – che costituiscono la struttura elementare del nucleo famigliare, un’istituzione universale presente con poche variazioni in qualsiasi cultura. La famiglia è il gruppo sociale primario con cui l’individuo viene a contatto e dal quale non potrà mai prescindere; anche presupponendo una radicale contrapposizione con la famiglia di nascita, quella rimane l’ineludibile punto di partenza della persona che diventeremo. Può essere una benedizione o una condanna, – nel mondo della letteratura, di solito è la seconda.

La quarantena è difficile per le famiglie “normali”, durissima per quelle disfunzionali, insopportabile per quelle che hanno al proprio interno un membro con esigenze specifiche.
L’attaccamento alla famiglia è una componente imprescindibile del nostro substrato culturale, in un eccesso che si ritrova nell’immagine ridicolizzata di un italiano bamboccione “attaccato alle gonne della mamma” fino alla geriatria, e nel racconto di generazioni incapaci di emanciparsi emotivamente ed economicamente dai propri genitori. Uno stereotipo che si rifà a una mitizzazione estrema, forse facilitata da una serie di convergenze storiche o geografiche; volendo, potremmo analizzare quelle culture che condividono lo stigma dell’attaccamento materno – la madre castrante e iperprotettiva è un topos della letteratura ebraica, le famiglie numerose e invadenti di quella irlandese – per capire se le similarità tra gli stereotipi possono rimandare a una stessa origine.
Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas è il romanzo italiano più famoso sull’autismo, un caso letterario tradotto in tutto il mondo dal quale Gabriele Salvatores ha tratto la sua pellicola più recente, Tutto il mio folle amore. Nell’estate del 2012 era l’inaspettato caso editoriale che leggevano tutti, libro dell’anno di Fahrenheit.
Se ti abbraccio non aver paura è un romanzo di formazione e di viaggio ispirato all’esperienza estrema di Franco e Andrea, così come lo stesso Franco l’ha raccontata a Ervas. Franco è padre di Andrea, un ragazzo autistico di diciassette anni. Comunicano poco a voce, qualcosa di più sul programma di scrittura sul pc di Andrea. Franco non si capacita della vita a metà cui vede condannato il figlio, e decide di proporgli un viaggio soltanto loro due, gli Stati Uniti in moto e poi giù verso l’America del Sud, ad allargare i propri orizzonti, lontani dalla rassicurante zona di comfort di Andrea. È un’avventura nel vero senso della parola, perché ogni tappa è piena di incognite e ipotesi di disastro; Franco è il più preoccupato dei due, teme che Andrea si possa perdere, che possa spaventarsi, che stimoli troppo forti possano convincerlo a chiudersi ancora di più in se stesso. È un’esperienza di crescita, forse, più per lui che per Andrea, il cui punto di vista compare di tanto in tanto in conversazioni telegrafiche digitate sulla tastiera, da cui risulta chiara la sua visione lucida e coerente, anche sulle proprie stranezze; tocca spesso la pancia delle persone, in qualche modo lo rassicura. Eppure sa che molti potrebbero non prenderla bene, e quando il padre glielo fa notare – per iscritto – dice che ogni tanto si sfida a impedirsi di farlo, e di protrarre talvolta l’attesa finché non diventa insostenibile, in una battaglia interiore di cui tace con chiunque, anche col padre.
In Il cervello autistico Temple Grandin racconta del suo incontro con Tito Rajarshi Mukhopadhyay, uno scrittore indiano che soffre di autismo classico, la stessa grave forma che ha colpito Andrea, e come molti autistici classici non parla e ha un controllo motorio limitato.

Incontrai Tito in una biblioteca medica di San Francisco. La sala era silenziosa, l’atmosfera tranquilla, non c’erano distrazioni. Il colloquio riguardò soltanto me, Tito e la sua tastiera. Gli mostrai un dipinto con un astronauta che montava un cavallo. “Apollo 11 su un cavallo” digitò rapidamente.
Poi andò su e giù per la biblioteca dimenando le braccia. Quando tornò alla tastiera, gli mostrai l’immagine di una mucca.
“Queste in India non le mangiamo” digitò.
Poi andò su e giù per la biblioteca dimenando le braccia. […] Quello di cui ero stata testimone era il Sé Agente di Tito, il Sé che il mondo esterno vede: un ragazzo che ruota su sé stesso, si agita, si dimena. Questo è anche il Sé che Tito vede. […] Il Sé agente va su e giù per la biblioteca dimenando le braccia. Il Sé pensante osserva il Sé agente che va su e giù dimenando le braccia.
La descrizione del comportamento di Tito combacia con quello di Andrea, che perde talvolta il controllo delle proprie azioni, come se il Sé pensante fosse troppo stanco e affaticato per mantenere un controllo costante sul corpo che abita, un Sé agente che si ribella.
Tolte le conversazioni telegrafiche col padre, la visione del mondo – e di se stesso – di Andrea non traspare spesso sulla pagina, tutt’altro. La voce narrante appartiene a Franco, che continua disperatamente a cercare un contatto, di fare proprie le prospettive di Andrea, in modo da stabilire un rapporto padre-figlio che sia più di quello tra un malato e un assistito. Franco cerca per il figlio quasi maggiorenne un’emancipazione che ai suoi stessi occhi risulta impossibile; è Franco a impazzire di preoccupazione quando Andrea si allontana, che teme il peggio quando restano separati troppo a lungo. Andrea ride, sorride, si chiude nel suo silenzio quando ne sente la necessità, capace di riconoscere il bisogno di prendersi una pausa e di regolarsi di conseguenza, mentre il padre fuori si strugge. Il paradigma è ribaltato rispetto alle narrazioni più classiche; non è l’autistico a combattere per uscire dal suo mondo, ma un padre che cerca di raggiungere il figlio nel suo autismo.
La manutenzione dei sensi di Franco Faggiani è un romanzo del 2018 in cui di nuovo assistiamo al racconto del rapporto tra un padre e il figlio autistico adolescente dal punto di vista del primo. Il narratore è Leonardo, vedovo di mezza età con una figlia adulta che sta per trasferirsi a Boston per lavoro. È stata lei a convincerlo ad accogliere in casa con loro Martino, ai tempi otto anni e un carattere scontroso. Sono poi state le autorità scolastiche a scoprire che Martino rientra nell’angolo estremo della funzionalità dello spettro autistico: soffre della sindrome di Asperger, e questo pone problemi inediti alla genitorialità di Leonardo, che tuttavia fa del suo meglio. Frequenta psicologi e neuropsichiatri, vuole sapere cosa aspettarsi da Martino, come è meglio trattarlo, quali difficoltà potrebbe incontrare. Alla partenza della figlia per Boston, decide di realizzare un sogno che aveva condiviso con la moglie, e fa restaurare una tenuta nella Val di Susa che avevano adocchiato decenni prima. Si trasferisce con Martino quando lui deve iniziare a frequentare le superiori e le cose per loro, tutto sommato, vanno bene. Le difficoltà interazionali e sociali con cui Martino deve scontrarsi non sono le stesse di Andrea – la barriera che lo separa dal mondo esterno è più facile da scavalcare, la sua comprensione delle norme sociali è più sviluppata – e i suoi modi eccentrici e scostanti trovano un riscontro nella vita di montagna, soprattutto nella figura di Augusto, un anziano pastore con cui stringerà una sincera amicizia.
Il fulcro del romanzo è il legame tra Leonardo e Martino, ma i due sono abbastanza indipendenti da vivere le proprie vite parallelamente, incontrandosi nel mezzo per scoprire come tradursi a vicenda. Benché non sia un legame nato sotto i migliori auspici – non fosse stato per l’insistenza della figlia, Leonardo avrebbe fatto volentieri a meno di accogliere Martino – è forte e saldo, e se Leonardo fa fatica a esprimersi, col suo carattere chiuso e riservato, che in un certo senso lo avvicina a Martino, quest’ultimo dialoga con Leonardo senza filtri o freni di circostanza; consapevole di quello che rischia di dividerli – una familiarità putativa, un disturbo che tocca immancabilmente la sfera sociale e affettiva – Martino cerca con Leonardo un dialogo diretto, aperto, più saggio del padre nel riconoscere la pericolosità di una comunicazione esitata.

We are family è il terzo romanzo di Fabio Bartolomei, uscito per edizioni e/o nel 2013. La componente familiare appare imprescindibile già dal titolo e rimane centrale per tutto il romanzo, fine ultimo delle azioni del protagonista e narratore, Almerico. Almerico ha iniziato le scuole elementari in anticipo e ha quattro anni nel 1971, quando i genitori vengono chiamati a colloquio dalla maestra, che inizia a enumerare le sue difficoltà a interagire coi compagni e il suo comportamento eccentrico, per poi passare, rassicurante, a tessere le lodi della sua intelligenza prodigiosa. Almerico è un genio, è chiaro fin da subito. Per quanto scanzonato, il suo eloquio è davvero forbito per essere quello di un bambino prescolare. La sua peculiarità in famiglia è stata presto accettata, le sue stranezze integrate perfettamente nel funzionamento della struttura familiare. Ha una sorella maggiore con la quale va tutto sommato d’accordo, benché ci siano degli screzi. Tra le mura di casa, Almerico se la cava – pur con le sue difficoltà, le sue fissazioni, il ricorso a un ricco mondo immaginario che comunque non risulta strano, considerata l’età. Origlia la conversazione dei genitori la sera del colloquio con la maestra, e qualcosa dentro di lui si fissa sulle loro conclusioni rassicuranti: “Con le doti che ha è destinato a fare grandi cose”, “Uno come lui potrebbe salvare il mondo”, e decide, con eroica e ingenua presunzione, di prendere sulle spalle le sorti del pianeta, a cominciare dalla sua famiglia.
Almerico non riceve mai una diagnosi soddisfacente per la sua condizione; viene portato a colloquio da professionisti, e origlia i genitori dire che potrebbe essere stata una caduta a provocargli un danno cerebrale, una scena che ha luogo a romanzo già iniziato, quando le sue stranezze sono comprovate già da decine di pagine. La seconda di copertina preannuncia misteriosamente che “lui nemmeno lo sa, resterà bambino tutta la vita”, senza accennare chiaramente a un disturbo mentale né a un danno neurologico. Viene da chiedersi se l’autore avesse mai incrociato il nome di Temple Grandin, venendo a conoscenza di quella stessa diagnosi, un danno cerebrale dovuto a una caduta. 
Le analogie tra l’esperienza di Temple e quella di Almerico proseguono, e non soltanto per similarità sintomatica. Entrambi appartengono a famiglie molto presenti, e hanno figure genitoriali solide che riescono a posizionare le basi di personalità forti, con una grande fiducia nelle proprie capacità. Almerico ha un’immagine idealizzata della propria famiglia, e crede fino all’età adulta alle bugie buone che gli vengono raccontate. Il padre è un autista di autobus con la terza media, ma lui è convinto che quello sia solo il primo passo di una futura carriera aerospaziale, la madre è casalinga perché si prepara a prendere il comando della base terrestre. Il romanzo è imbevuto di questioni di classe, ingiustizia sociale, critiche al sistema economico. La voce di Almerico, geniale ma ingenuo, tende ad appiattire un discorso complesso pieno di fattori e principi spesso contrastanti. L’autore è solito scrivere opere leggere e disimpegnate nello stile, in cui tematiche sociali di un certo spessore – la crisi economica e la pervasività della mafia in Giulia 1300 e altri miracoli (2011), l’alienazione degli anziani in La banda degli invisibili (2012) e così via – vengono affrontate con chiarezza didascalica, le voci narranti si esprimono con semplicità e i paragrafi si interrompono spesso con una battuta. La complessa impalcatura narrativa di We are family, in cui al racconto esplicito di Almerico si affianca una lettura tra le righe di ciò che lui non riesce a comprendere, è facilitata dall’uso di un narratore soltanto parzialmente affidabile, che riesce a spostare della misura necessaria la tolleranza dell’improbabile e la sospensione dell’incredulità del lettore.

Buona parte della narrativa straniera è più interessata a raccontare il travaglio dell’individuo autistico nell’approccio col mondo esterno piuttosto che la sua dimensione famigliare.
In tutti e tre i romanzi, l’autismo viene raccontato principalmente nel – e in funzione del – contesto famigliare, un approccio interpretativo preminente del tema nella letteratura italiana. Non che le letterature straniere manchino di esplorare l’universo complicato dei rapporti famigliari in relazione a individui autistici; in Come muoversi tra la folla di Camille Bordas (2019), il protagonista undicenne Isidore racconta la difficile e bizzarra quotidianità della sua famiglia immersa nello spettro; in A bocca chiusa non si vedono i pensieri di Benjamin Ludwig (2017), dove la protagonista è una ragazzina autistica incapace di far parte fino in fondo della sua famiglia adottiva, intrappolata nell’incognita di quello che ne è stato di quella di nascita; anche nel celeberrimo Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon (2003) il filo della trama segue l’involontario rovistare del protagonista nei segreti della sua famiglia. Buona parte della produzione estera pare tuttavia più interessata a raccontare il travaglio dell’individuo autistico nell’approccio col mondo esterno piuttosto che la sua dimensione famigliare, e si tratta spesso di narrazioni incentrate sul difficile periodo dell’adolescenza, l’inizio dell’emancipazione.
Se ti abbraccio non aver paura e La manutenzione dei sensi spiccano per un evidente elemento in comune, il fatto che siano narrazioni in prima persona di padri di figli autistici, seppure lontanissimi per gravità del disturbo. Mentre la quasi totalità delle narrazioni estere racconta l’autismo dalla prospettiva spesso in prima persona dell’individuo nello spettro, è dagli occhi dei padri – Franco e Leonardo – che osserviamo il comportamento dei figli e la relazione coi genitori-narratori. Andrea e Martino comunicano – e Andrea lo fa più di quanto si aspetterebbe il padre – in modalità indirette, filtrate dallo sguardo narratore dei genitori. La questione è diversa per Casimiro, che in We are family prende la parola con sfacciataggine fin dalla prima riga; eppure, anche nel suo caso, assistiamo a un racconto soltanto parzialmente consapevole da parte di un narratore all’oscuro di elementi importanti della storia; nessuno condivide con lui volontariamente informazioni sulla sua condizione, sullo stato economico in cui versa la famiglia, le notizie più spiazzanti. La visione d’insieme di Casimiro è incompleta, oscurata da un filtro che ne limita il controllo sul racconto, non troppo dissimile da quello che offre ad Andrea e a Martino la possibilità di essere raccontati soltanto come punto centrale del racconto di un altro.

L’opera letteraria riflette l’idea di realtà di chi la scrive, una pluralità di voci raccolte tra l’evoluzione dell’individuo e le trasformazioni della società che lo include. La transizione verso l’indipendenza propria dell’età adulta è un elemento ancora da esplorare all’interno della nostra letteratura, come se dopotutto il nostro substrato culturale non considerasse poi così rilevante il distacco dell’individuo dall’ambiente protettivo di un nucleo famigliare.
Senza nulla togliere alla testimonianza che Fulvio Ervas dà dell’esperienza di Franco e Andrea né al racconto che dell’autismo hanno fatto Fabio Bartolomei e Franco Faggiani – racconti rispettosi in quanto consapevoli, informati e non patetici – viene da chiedersi quando leggeremo di una Temple Grandin nata tra Asti e Macerata, e di come il suo cervello autistico abbia impattato contro una realtà neurotipica per evolversi – senza perdersi o peggio omologarsi – in un adulto indipendente e funzionale. È una letteratura che deve ancora venire, uno stadio precedente a quello embrionale; terrà conto, forse, della condizione attuale, la staticità che ci intrappola tutti e che colpisce certe famiglie più di altre. La quarantena potrebbe diventare un punto di rottura, il culmine di una crisi già presente e conclamata, il balzo del neuroatipico dalla casa diventata prigione verso un mondo di cui ancora non ci azzardiamo a immaginare la forma.



Erica Casale
gestisce il lit-blog La Leggivendola e collabora con L'Indiscreto, Rivista Spore e Not
Articolo tratto da IL TASCABILE



Tutte le illustrazioni sono di Eric Chen: Mirror Mind, da 
Drawing Autism: A Visual Tour of the Autistic Mind from Kids and Celebrated Artists on the Spectrum







Il 2 aprile, XII Giornata Mondiale della Consapevolezza sull'Autismo, nonostante l'emergenza coronavirus, alcuni monumenti importanti in Italia e nel mondo si tingono di blu.
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18 maggio 2012

Autismo: il raggio del suono

UN PROGETTO ITALO-SVIZZERO con il Soundbeam
  Il Crams, Centro ricerca arte musica spettacolo di Lecco, in collaborazione con l'Istituto scientifico Medea - La Nostra Famiglia ha avviato un progetto di cooperazione sociale transfrontaliera per l'integrazione delle persone disabili chiamato "Il raggio del suono". Partito nel 2008, il progetto ha visto la partecipazione di alcune tra le principali realtà impegnate nel campo della disabilità nelle province di Lecco, Como e nel Canton Ticino (Crams, Irccs Medea, Fondazione Provvida Madre ed Rsu Sim-patia). Si tratta di un network di sperimentazione e ricerca che ho come scopo di validare l'efficacia terapeutica dello strumento Soundbeam, "il raggio del suono". Utilizzato soprattutto nel Regno Unito, consiste in una strumentazione che impiega sensori ad ultrasuoni in grado di trasformare i movimenti, anche i minimali, in segnali "midi", che vengono poi convertiti in suoni, immagini, stimoli-esperienze tattili: è sufficiente un semplice movimento del corpo, dentro il fascio di ultrasuoni, per riprodurre il suono di un violoncello, il miagolio di un gattino, il rumore della pioggia sul tetto. Il gruppo di ricerca è riuscito ad adattare l'apparecchiatura alle specifiche esigenze delle persone coinvolte nel progetto, in buona parte bambini e giovani con disabilità: la sperimentazione ha infatti coinvolto circa 50 utenti di 5 centri della provincia di Lecco e circa 60 alunni delle scuole primarie del Lecchese e ha dimostrato di essere un elemento innovativo nell'approccio alla disabilità. Non solo: lo studio ha rivelato che con il Soundbeam i ragazzi, oltre ad imparare ad ascoltare, esprimersi e comporre i suoni, rivelano un'abilità a concentrarsi che in altri contesti non risultava evidente, iniziano a scoprire, esplorare, esprimere e comunicare i loro sentimenti, sono più consapevoli e interagiscono con l'ambiente circostante, sviluppando così i rapporti interpersonali. Il tutto con ricadute positive sulla loro autostima e integrazione sociale.

Il progetto ha anche validato l'utilizzo dello strumento in una terapia specifica per la riabilitazione dell'autismo. In questo ambito - spiegano i promotori - Soundbeam, unendo la musica ai movimenti del corpo, ha reso possibile creare un trattamento basato sull'imitazione motoria, che ha determinato importanti miglioramenti nell'interazione sociale e nel contatto di sguardo. "La ricerca tecnologica - afferma Angelo Riva, presidente del Crams -, che ci ha consentito di realizzare ausili complementari dotati di sensoristica interattiva wireless, ora proseguirà con la sperimentazione dell'uso della tecnologia del soundbeam e delle sensory room nelle terapie di riabilitazione neuromotoria, in collaborazione con l'Istituto Medea. Stiamo anche pensando a teatri sensoriali". "Se, nell'ambito degli ausili per la mobilità e per la comunicazione, lo sviluppo tecnologico ha portato grandi miglioramenti, nel campo dell'espressività la ricerca è ancora praticamente inesistente o acerba" dicono i promotori in una nota. "La mancanza di sperimentazione e di investimento in ambito creativo ha determinato un significativo gap dell'Italia e della Svizzera nei confronti di alcuni paesi del nord Europa, come Regno Unito e Scandinavia. In Inghilterra, per esempio, nei centri con disabilità gravi vengono realizzate attività espressive fino all'80% del tempo impiegato nelle attività terapeutiche". I risultati del progetto "Il raggio del suono" verranno illustrati durante il convegno "Educare alla diversita'", che si terra' il 25 maggio presso La Nostra Famiglia di Bosisio Parini e il 26 maggio nell'ambito di Reatech Fiera Milano, a Rho. Tra gli altri, interverrà al convegno anche David Jackson, lo storico sassofonista dei Van Der Graaf Generator, che collabora con il Crams per l'utilizzo del Soundbeam.

4 febbraio 2012

Troppi neuroni nel cervello autistico

Secondo una nuova ricerca, in molti casi l'autismo potrebbe essere conseguenza del fallimento dei processi di sfoltimento dell'eccesso di neuroni che si formano fra le 10 e le 20 settimane di gestazione, La corteccia prefrontale dei bambini autistici presenta infatti il 67 per cento di neuroni in più rispetto ai soggetti normali

Questo tipo di neuroni, che vengono prodotti solamente durante lo sviluppo prenatale, è caratterizzato anche da una dimensione superiore alle media. Inoltre le circonferenza cranica dei soggetti autistici, relativamente ridotta alla nascita, subirebbe un improvviso ed eccessivo aumento durante il primo anno di vita.
In particolare, gli scienziati hanno scoperto che la corteccia prefrontale dei bambini affetti da autismo conta il 67 per cento di neuroni in più rispetto a quella dei soggetti normali, un dato che, secondo il Eric Courchesne, direttore del Centro di eccellenza sull’autismo e coordinatore dello studio, indicherebbe che il disturbo derivi da processi prenatali non andati a buon fine, confermando una teoria relativamente recente sulle possibili cause dell'autismo.
"Gli studi di imaging cerebrale dei bambini con autismo hanno dimostrato una crescita eccessiva e una disfunzionalità della corteccia prefrontale e altre regioni del cervello", ha detto Courchesne. "Ma la causa di fondo a livello delle cellule cerebrali è rimasta un mistero. L'ipotesi migliore è che la crescita eccessiva della corteccia prefrontale sia dovuta a un eccesso di cellule cerebrali, ma finora non era mai stata testata." (Una panoramica sullo stato della ricerca sull'autismo è stata pubblicata di recente su "Nature")

Nello specifico, i ricercatori - che hanno confrontato il tessuto post mortem dalla corteccia prefrontale di sette ragazzi affetti da autismo, con quello di sei ragazzi con sviluppo tipico - hanno trovato il 79 per cento di neuroni in più nella corteccia prefrontale dorsolaterale (in media 1,57 miliardi di neuroni rispetto a 0,88 miliardi dei controlli) e il 29 per cento in più nella corteccia prefrontale mediale (0,36 miliardi di neuroni rispetto a una media di 0,28 miliardi di neuroni nei controlli.I ricercatori hanno anche scoperto che il peso del cervello del campione autistici deviava dal peso medio per l'età del 17,6 per cento.
Courchesne ha spiegato che la proliferazione di questi neuroni è esponenziale tra le 10 e 20 settimane di gestazione, traducendosi in una sovrabbondanza di neuroni a questo punto nello sviluppo fetale. Tuttavia, durante il terzo trimestre di gravidanza e primi anni di vita, circa la metà di questi neuroni viene normalmente eliminata attraversi un processo di apoptosi (o morte cellulare programmata), che evidentemente nel caso dell’autismo fallisce.
"Il nostro campione di bambini autistici non era abbastanza grande per esaminare relazioni statisticamente cervello-comportamento. Studi futuri con molti più casi di bambini autistici potrebbero rivelare importanti relazioni tra conteggio dei neuroni e gravità dei sintomi o capacità intellettuali", scrivono gli autori.
"Riteniamo che alla fine – ha concluso Courchesne – non tutti i bambini con un disturbo autistico mostrerà questo eccesso, ma il nostro studio suggerisce che esso possa essere molto comune tra i bambini con autismo. Si tratta di una scoperta eccitante perché, se la ricerca futura individuerà le ragioni di questo eccessivo numero di cellule cerebrali, avrà un grande impatto sulla comprensione dell'autismo, e forse sullo sviluppo di nuovi trattamenti."

21 dicembre 2011

"IL CANTO DI ARIO", UNA STORIA VERA


UNA FAVOLA DI SPERANZA PER I BAMBINI AUTISTICI
"Il canto di Ario" è una favola che parla di accoglienza senza paure del disabile e della speranza di costruire un futuro possibile anche per chi e' autistico. Il libro racconta la storia vera di un bambino nato con la sindrome autistica, che trova il suo modo di mettersi in contatto con il mondo attraverso la sua capacità di mandare a memoria le canzoni ascoltate alla radio anche una sola volta.  "La storia di Ario è quella di un dono che viene da lontano, un dono che viene da una nuvola di silenzio - si legge sulla quarta di copertina - . E' una storia che coinvolge e commuove perché parla della speranza. Una storia dove la musica ci permette di essere più forti e dove l'amore, alla fine, batte tutte le differenze". La favola, presentata nei giorni scorsi nell'affascinante contesto del Museo internazionale delle marionette 'Antonio Pasqualino' di Palermo, vuole contribuire infatti a promuovere l'accoglienza del disabile tra i bambini delle scuole primarie.Il libro nasce da una esperienza professionale del professor Mauro Li Vigni, che durante i suoi anni di lavoro, in qualità di dirigente scolastico di una scuola primaria, ha stabilito profondi contatti professionali prima e di amicizia poi con i membri del Comitato "L'autismo parla" a cui è dedicato il libro.La storia raccontata vuole anche essere, nelle intenzioni dell'autore, un messaggio di speranza per tutte quelle famiglie che si trovano nella difficile fase iniziale della scoperta del disturbo autistico di un proprio figlio.
Il tema dell'integrazione della diversità è solo uno di quelli trattati nel racconto che si contraddistingue anche per il riferimento al potere della musica come strumento di contatto tra bambini autistici e mondo esterno. Nel racconto ci sono personaggi diversi che ruotano intorno ad Ario ma tra tutti spiccano i bambini stessi, suoi compagni di classe, contenti di essere coinvolti in un progetto così importante di recupero delle relazioni con il loro compagno che vive la sua vita isolato in un angolo della stanza.  Il libro vuole essere anche un modo per esplorare e far riflettere i più piccoli sulla diversità e i modi di dialogo possibili con chi è portatore di un linguaggio diverso dal nostro. Il linguaggio usato nel racconto è quello adatto ai bambini che frequentano la scuola primaria: privo, cioè, di termini scientifici ma denso di riferimenti ai comportamenti quotidiani, alla vita vissuta realmente, con le sue difficoltà, da un coetaneo con caratteristiche diverse. Il testo è accompagnato dalle colorate illustrazioni di Giuseppa La Barbera, zia di un bambino autistico, che sottolineano i momenti salienti del racconto.
"Il libro è stato chiuso nel cassetto per un anno in attesa che arrivassero le illustrazioni che meglio potessero interpretare il racconto - afferma Mauro Li Vigni. I messaggi del racconto sono molteplici: l'avvicinamento dei bambini al 'diverso' da loro, la sua accoglienza, la sua valorizzazione e il rispetto di situazioni lontane dalle abitudini quotidiane dei bambini. Il personaggio centrale della storia, Lello Mangiante, riesce, attraverso la musica, a fare diventare Ario il protagonista di un mondo da cui lui stesso si esclude. Questa favola cerca anche di allontanare la paura dell'ignoto che ci impedisce di andare oltre le barriere - continua l'autore -.
Nella storia di Ario c'è, infatti, il desiderio di andare avanti di fronte a ciò che non conosciamo superando la paura del 'diverso'". "Per noi e' molto importante, più che entrare nelle librerie, riuscire ad entrare nelle scuole - prosegue Mauro Li Vigni -. A tale scopo gireremo le scuole primarie di Palermo con l'intento di presentarlo e farlo conoscere agli insegnanti e ai bambini. Il 40% del ricavato della vendita verrà devoluto all'associazione 'L'autismo parla' a cui il libro è dedicato".
"Credo che il potere delle parole di questa favola sia straordinario - dice Rosi Pennino, presidente del comitato "L'autismo Parla" -. Questa favola offre a tutti, piccoli e grandi, la possibilità di non avere paura della disabilità. Una favola che parla di sogni infranti, di disperazione, di amore e di speranza. Sappiamo tutti che di autismo non si muore ma si muore a poco poco con il silenzio e l'indifferenza sociale.
Riteniamo quindi molto importante diffondere questo libro perché siamo convinti che la battaglia più grande sia quella dell'integrazione oltre a quella di potere avere per i nostri figli dei servizi dedicati. Ricordiamoci che spesso dietro le bizzarrie dei bambini autistici c'è una ricchezza di risorse che andrebbe valorizzata e incanalata nella giusta direzione".
Il libro è anche uno strumento essenziale di promozione delle attività del comitato "L'autismo parla" genitori di Palermo che da anni si battono sul territorio per il miglioramento delle condizioni di vita dei propri figli affetti dalla sindrome autistica. A tale scopo in questi giorni viene portato nelle scuole primarie della città il racconto orale de "Il canto di Ario" realizzato dallo stesso autore. Tutto cio' per rendere possibile una maggiore diffusione del messaggio di solidarieta' e operare una raccolta fondi per sostenere le attivita' del Comitato "L'autismo parla".

7 luglio 2011

Autismo e SSRI

I farmaci SSRI non consigliati nei bambini o negli adulti con autismo

Sulla base delle attuali evidenze gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) non possono essere raccomandati per il trattamento nei bambini o negli adulti con autismo.
Queste le conclusioni di una revisione Cochrane.
L'analisi non ha trovato prove che i farmaci SSRI siano efficaci nei bambini con autismo, anzi potrebbero anche essere dannosi; vi sono prove molto limitate che gli SSRI siano efficaci negli adulti, la dimensione del campione analizzato era piccolo ed esiste un alto rischio di bias.
Pertanto, le decisioni riguardo il trattamento delle condizioni che possono accompagnare il disturbo dello spettro artistico, come ad esempio il disturbo ossessivo-compulsivo o la depressione, dovrebbero essere fatte su base individuale.
L'analisi ha preso in considerazione 7 studi che hanno valutato 4 farmaci SSRI: Fluoxetina (Prozac), Fluvoxamina (Luvox; in Italia: Fevarin), Fenfluramina, e Citalopram (Celexa; in Italia: Seropram, Elopram).
Hanno preso parte a questi studi 271 pazienti. Cinque studi hanno riguardato i bambini, e 2 gli adulti.
Gli studi, della durata massima di 12 settimane, erano di piccole dimensioni, con l’eccezione di 1 hariguardato più di 100 soggetti; per questo motivo, non è stato possibile effettuare una meta-analisi.
In 5 studi su pazienti in età pediatrica, di cui uno studio di buona qualità con Citalopram e 4 studi minori con Fluoxetina, Fluvoxamina e Fenfluramina, non è stata riscontrata alcuna evidenza di beneficio.
Lo studio con Citalopram ha riportato una maggiore incidenza di eventi avversi nei bambini trattati con l’antidepressivo rispetto al placebo, con un evento avverso grave (crisi convulsiva prolungata).
Gli studi che hanno riguardato gli adulti hanno riportato miglioramenti significativi alla scala CGI (Clinical Global Impression) (Fluvoxamina e Fluoxetina), nei comportamenti ossessivi-compulsivi (Fluvoxamina), ansia (Fluoxetina) e aggressività (Fluvoxamina).
Tuttavia, i 2 principali studi erano di piccole dimensioni (uno aveva solo 6 pazienti, l’altro 30 pazienti).
In entrambi gli studi compiuti negli adulti, il trattamento è risultato ben tollerato.
I farmaci SSRI non sono approvati per il trattamento dell'autismo, pertanto l'uso di questi farmaci nei bambini affetti da questa patologia è off-label o serve a trattare la depressione o il disturbo ossessivo-compulsivo.
L’FDA (Food and Drug Administration) ha approvato la Sertralina (Zoloft) in bambini di 6 anni e più, la Fluoxetina nei bambini di 7 anni, e la Fluvoxamina nei bambini di 8 anni ed oltre per il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo. L’Agenzia regolatoria statunitense ha anche approvato la Fluoxetina nei bambini di 8 anni o età superiore, ed Escitalopram (Lexapro) in adolescenti di 12 e 17 anni per il trattamento della depressione.

Fonte: Cochrane Database Syst Rev, 2010

19 febbraio 2007

Autismo [Ansa]

AUTISMO, SCOPERTO IL GENE DECISIVO

ROMA - Una mappatura senza precedenti del Dna di circa 2.000 famiglie con soggetti colpiti da autismo, ha permesso di scoprire un nuovo gene coinvolto nella malattia e una regione cromosomica a sua volta con un ruolo nello sviluppo di questo disturbo neurologico. Una scoperta fondamentale, che apre la strada, a lungo termine, all'individuazione di nuovi trattamenti contro la malattia. Riportati sulla rivista Nature Genetics, si tratta degli importanti risultati del più ampio studio di genetica dell'autismo mai condotto finora, realizzato in seno al 'Progetto Genoma Autismo'.
Il Progetto, lanciato nel 2002 dal Consorzio di studio sull'Autismo, vede la partecipazione di scienziati di tutto il mondo, ed anche una presenza italiana con il gruppo di Elena Maestrini, del Dipartimento di biologia evoluzionistica Sperimentale dell'Università di Bologna, e anche il supporto di Telethon. Un enorme lavoro di gruppo che dal 2002 accomuna 120 scienziati di 19 Paesi provenienti da più di 50 Istituti di ricerca diversi, che hanno fatto nascere il consorzio AGP, fondato e sostenuto inizialmente da un'organizzazione non-profit americana, 'Autism speaks', e dagli NIH, gli Istituti di ricerca pubblici statunitensi. Del consorzio fa appunto parte anche un gruppo di ricercatori italiani guidato dalla Maestrini, che utilizza finanziamenti Telethon dal 1999 per la sua ricerca sulle cause genetiche dell'autismo.
L'intenso studio sul genoma di 1.168 famiglie con almeno due membri colpiti da disturbi autistici, ha permesso di individuare il coinvolgimento del gene per la proteina neurexina 1 e una regione del cromosoma 11, probabilmente sede di altri geni ancora da scoprire, a loro volta coinvolti nella genesi della malattia. Il mega progetto sull'autismo prevede varie fasi: la prima, appena conclusa, di analisi preliminare del DNA delle circa 1200 famiglie con almeno due casi di autismo; una seconda fase, che sta per partire, in cui si analizzerà il DNA ancora più nel dettaglio, con una risoluzione maggiore, e si cercherà di correlare i difetti genetici trovati con le manifestazioni cliniche dei pazienti.
Lo studio ha utilizzato una tecnologia sofisticata, chiamata 'gene-chip', per ricercare le caratteristiche genetiche che accomunano gli individui affetti da autismo. Nell'ambito del progetto, gli esperti hanno unito insieme i dati raccolti da ciascun laboratorio, arrivando così per la prima volta a confrontare il Dna di un numero così grande di famiglie con persone con la malattia.
L'analisi di questa vasta mole di dati ha quindi portato all'individuazione di un gene difettoso nei soggetti autistici, appunto quello per la neurexina 1, una proteina importante del sistema nervoso con un ruolo nella trasmissione del messaggio nervoso e nell'apprendimento.
Passando al setaccio il Dna delle famiglie, gli esperti hanno anche individuato una nuova regione 'sospetta' sul cromosoma 11, in cui sperano di isolare altri geni complici. L'autismo è una complessa malattia neurologica che si manifesta in sei bimbi ogni 1000, i quali hanno difficoltà nelle relazioni sociali, anche nei rapporti con i propri cari.
Numerosi studi suggeriscono che l'autismo sia il risultato di molteplici disfunzioni neurali, su base sia genetica sia ambientale, ed è per scoprire la sua complessa origine ereditaria che istituzioni mondiali si sono unite insieme nel Progetto Genoma Autismo, spiegano i suoi coordinatori Bernie Devlin, dell'Università di Pittsburgh, e Stephen Scherer dell'Università di Toronto.
L'obiettivo è arrivare alla realizzazione di una 'mappa completa dei geni dell'autismò. "I primi risultati di questo progetto collaborativo - ha commentato Maestrini - aprono la strada all'identificazione dei meccanismi implicati nella predisposizione all'autismo, con l'obiettivo a lungo termine di migliorarne la diagnosi e di offrire nuovi trattamenti per i pazienti e le loro famiglie". [ANSA]