In questi giorni, stiamo tutti combattendo con una esperienza nuova,
che ci fa confrontare con qualcosa di ignoto che non è solo il virus
Covid-19, in se – quello che fa, come è in grado di mutare, se ci farà
ammalare e quanto, ma anche con la gestione pubblica di questo fenomeno,
l’epidemia di un virus con grandi capacità di contagio, gestione che
implica delle decisioni per noi stranianti e incredibili – figli a casa
per due settimane, molti luoghi di lavoro chiusi – e siccome tutto
questo poi si riverbera anche su centri, decisioni e attività anche di
soggetti non inclusi in quei provvedimenti, eccoci che ci troviamo a
subire anche il turismo in crisi, settori produttivi che si fermano, una
contrazione del lavoro che è gravemente incisiva. Siamo spaventati,
molti vanno incontro a problemi importanti – e per quanto mi è dato
capire, questa situazione potrebbe durare ancora: io non credo che
bastino due settimane di controllo delle attività per arginare il
peggio. Sarà necessario fermare tutto per ancora del tempo. E’ veramente
una prova difficile, materialmente e psicologicamente per tutti noi.
Una cosa che si può cercare di fare, per sopportare meglio tutti
questi eventi è informarsi, e ragionare. Leggere, cercare di capire per
bene – per esempio la matematica esponenziale dei contagi, i modelli
matematici che stanno dietro all’interpretazione delle epidemie – è un
‘operazione che ha psicologicamente un significato forte, perché ci fa
smettere un po’ di essere figli di un genitore – Stato che ci impone
regole insensate, ma ci fa trasformare in soggetti consapevoli che
possono abitare quelle regole e in caso accettarle – come fanno i figli
meno patologici in regime di emergenza – compartecipando al gruppo
sociale. Perché un’epidemia, è un regime di emergenza.
Per questo ora io vorrei parlare del bellissimo libro di David Quammen Spillover (Adelphi 2014. Tra.it L.Civalleri) e vorrei condividere l’esperienza di una lettura che è una storia delle scoperte dei biologi in merito a virus e pandemie, che mi ha procurato una serie di importanti agnizioni politiche, un libro cioè che ha la curiosa caratteristica di essere un piacevole excursus sui virus, su come funzionano, e sugli strumenti che scientificamente si utilizzano per decodificarli, ma che ti lascia dentro un pensiero invece politico sullo stare al mondo, su come il non sapere ci renda strumenti di ideologie altrui, su farsi comunità, sull’abitare la terra con gli altri animali. Il volume – con una nobile bibliografia e 560 pagine di vicende e acquisizioni, non è certo sintetizzabile in un post – ma qui metterò in osservanza ai 4 punti di sopra, le cose che mi hanno colpita. Mi dispiace per lo spoiler e per l’elevato grado di approssimazione.
Per questo ora io vorrei parlare del bellissimo libro di David Quammen Spillover (Adelphi 2014. Tra.it L.Civalleri) e vorrei condividere l’esperienza di una lettura che è una storia delle scoperte dei biologi in merito a virus e pandemie, che mi ha procurato una serie di importanti agnizioni politiche, un libro cioè che ha la curiosa caratteristica di essere un piacevole excursus sui virus, su come funzionano, e sugli strumenti che scientificamente si utilizzano per decodificarli, ma che ti lascia dentro un pensiero invece politico sullo stare al mondo, su come il non sapere ci renda strumenti di ideologie altrui, su farsi comunità, sull’abitare la terra con gli altri animali. Il volume – con una nobile bibliografia e 560 pagine di vicende e acquisizioni, non è certo sintetizzabile in un post – ma qui metterò in osservanza ai 4 punti di sopra, le cose che mi hanno colpita. Mi dispiace per lo spoiler e per l’elevato grado di approssimazione.
La prima cosa che ho imparato da questo libro, è la relazione tra
emergere dei virus e disturbo dell’ecosistema. Ho capito che molti virus
sono zoonosi, ossia patologie che provengono dal regno animale, e che
hanno fatto uno spillover cioè sono passati da una specie
animale a un’altra, in particolare la nostra. Questo sbarco nell’umano è
dovuto a due questioni: la prima riguarda la variazione degli
ecosistemi, la seconda l’aumento degli esseri umani. La variazione degli
ecosistemi passa da diversi cambiamenti importanti che noi abbiamo
imposto diciamo, alle abitudini del nostro pianeta. Ci sono le
deforestazioni in primo luogo, ma anche gli spostamenti di animali in
territori che non gli appartenevano, e anche le nuove forme di
promiscuità che prima non erano così ovvie. I virus ci sono sempre
stati, ma spesso erano silenti e come dire, in un gradiente diffuso nel
regno animale, mentre questi nostri interventi, hanno attaccato gli
ambienti in cui i virus vivevano, o meglio in cui vivevano i loro
ospiti, e rendendoli inospitali per gli ospiti, hanno fatto in modo che
diventassero spesso più nocivi, e si trasferissero in noi. Da una parte
cioè i virus vengono sfrattati dal loro territorio, perché sono
manomesse le abitudini e i territori degli animali che tradizionalmente
li hanno sempre ospitati, dall’altra cercando loro una casa, ed essendo
noi diventati circa 7 miliardi solo nell’ultimo secolo, la trovano nei
nostri corpi, e le occasioni per cercarla sono state fornite da quei
cambiamenti per cui oggi molti animali vivono vicino alle nostre città.
Se infatti l’animale che è abitato da un certo virus -“l’animale
serbatoio” . prima aveva una foresta come casa che ora non ha più va a
cercare la casa nella prossimità dei nostri nuclei urbani – quindi per
esempio: mangerà la nostra spazzatura espleterà i suoi bisogni sui
frutti della nostra agricoltura – il virus in queste occasioni, non le
uniche, tenterà lo spillover, cioè il salto in un’altra specie. Questo
avviene nei momenti di contatto interspecie, anche indiretti: se per
esempio un dato uccello, o un dato pipistrello che ha il virus mangia
dei frutti che noi coltiviamo, oppure se cominciamo a catturare quegli
uccelli per farne allevamenti o venderli al mercato – insomma si creano
occasioni di passaggio del virus. Lo spillover, riesce di rado, la
stragrande maggioranza delle volte fallisce, ma le occasioni sono
diventate tantissime.
La parte interessante del libro, è che mentre io ve la racconto
discorsivamente e con molte imprecisioni, la spiegazione del passaggio
transita per la statistica, il calcolo delle probabilità, e i modelli
matematici, per cui se si segue la lettura, non si ha più quella vaga
percezione di possibilità che è tipica di chi costeggia le problematiche
ecologiche, ma si capisce esattamente la ratio del perché certe cose
succedono.
La seconda cosa che ho imparato, riguarda la lunga storia che c’è
dietro l’esplosione di un virus importante, e quanto l’ignorare quella
storia ci renda manipolabili da ideologie culturali. E’ esemplare in
questo senso la storia dell’AIDS, e di come si sia scoperta la lunga
strada che ha fatto prima di diventare la pandemia terribile che ancora è
in corso. Nel mondo occidentale l’AIDS è arrivato nei primi anni 80, ed
è stato pensato come una patologia destinata al mondo omosessuale, o in
alternativa al mondo che faceva consumo di stupefacenti, ed è stata
spesso anche concettualizzata come vendetta divina per i peccatori
umani, e altre terrificanti assurdità, quando invece l’aids ha storia
antichissima, è tra noi dal lontano 1908, anno in cui avvenne il primo
spillover, in Camerun, e Africa, dove ha continuato a crescere e a
diffondersi anche perché all’epoca le condizioni di vita erano molto
critiche, il ciclo di vita delle persone molto breve, e in generale le
prime vittime non facevano a tempo a morire della diagnosi di
immunodeficienza, morivano di altro. E’ sbarcato in occidente ben prima
degli anni ottanta, e spesso ha riguardato persone che non erano
necessariamente omosessuali. Un altro esempio mi ha molto interessata, e
riguarda lo spillover che ha portato tra noi la – terribile SARS. Mi ha
interessato perché mi ha ricordato le fandonie che ha dichiaro
recentemente l’inopportuno Zaja a proposito dei cinesi che si
mangerebbero topi vivi come quindi evidenti untori e responsabili del
Corona virus. Zaja ha fatto una teoria dello spillover tutta sua, ha
pensato correttamente a una zoonosi, ma l’ha messa al servizio di una
idea discriminatoria e razzista di orientale, come animale che mangia
altri animali, non come noi genti evolute che maceriamo il cinghiale tre
giorni prima di farlo al ginepro. C’è anche una proiezione classista
segreta nelle sue parole, c’è proprio il clichet, la scorciatoia – a cui
tutti spesso inconsapevolmente aderiamo – che la povertà tout court
generi quel che di selvaggio e pericoloso che porta le malattie.
Invece la storia dello spillover della Sars – che ricordiamo è un
coronavirus – è limitrofa e più complicata. Ha a che fare con l’idea di
lusso, e la domanda di lusso degli occidentali in estremo oriente, per
cui tra le tante cose cool da chiedere agli alberghi e ai ristoranti
extra lusso, c’è il fatto di mangiare specie esotiche, animali strani,
cose mai viste, in piatti che presumibilmente costano molti soldi, fatti
di bestie che poi sono ricercate e vendute in grandi mercati, in una
promiscuità che genera costanti occasioni di spillover. Non sono i
poveri cinesi rozzi e ignoranti che si magnano i topi quindi a metterci
in pericolo: è il nostro modo di interpretare il capitalismo,
l’inglobare il cibo, qualsiasi cibo, in logiche di status a metterci in
pericolo. In altri termini, Zaja caro, siamo noi a mangiarci i ratti – e
naturalmente a chiedere di cucinarceli. Ma che ti credi.
Allo stesso tempo è il capitale, e le sue esigenze, a generare nuove
occasioni di vulnerabilità al virus, come per esempio, terza cosa che mi
ha spiegato per bene questo il libro, l’esigenza del capitale di
togliere animali da un contesto e metterli in un altro che non gli
appartiene affatto. Diverse nostre gravi epidemie hanno a che fare con
questa usanza del capitale: perché la mucca dove non abitava, il cavallo
che non ha mai avuto a che fare con le interazioni di un certo
ecosistema, una volta trasportati in contesti molto lontani che non li
hanno mai ospitati – come è successo in Australia, diventano territori
vergini per i virus, candidati elettivi per colonizzazioni virali che li
possono far ammalare, e far diventare cinghie di trasmissione per le
epidemie che ci riguardano.
Ora ci troviamo davanti a una nuova epidemia, una esperienza che ci
pare nuova e il cui impatto ci riesce difficile da capire, perché ha un
tasso di mortalità relativamente basso, per cui ci viene da dire che
forse le misure contenitive sono ingiuste ed esagerate, dal momento che
alla fine ci sembra che i sacrifici superino i benefici. Credo che molto
di questa percezione derivi dalla difficoltà di capire la matematica
dell’epidemiologia, la matematica del contenimento – e anche la
matematica di queste cose con il servizio sanitario nazionale. E
indubbiamente c’è da ammettere che la comunicazione politica in questo
momento fa trasparire nella sua contraddittorietà tutte le difficoltà
gestionali che la sfida comporta per cui nessuno ha la sensazione di
essere in mano a una scelta autorevole, nonostante i provvedimenti siano
in realtà – almeno per me – appropriati e ineludibili. Tuttavia
un’altra cosa che ho capito è che c’è questa strana relazione di
proporzionalità inversa tra contagiosità e letalità di un virus: più un
virus è cattivo meno persone contagia, in base al principio piuttosto
cinico per cui il virus cattivo mette le persone nelle condizioni di non
poter andare in giro a seminar disgrazia, mentre quello più blando in
compenso infetta molte più persone anche se miete meno vittime per n
contagiati. Questo vuol dire però che quando i contagiati sono tanti,
anche le persone che ne muoiono o quelli che invece attraversano una
grave criticità diventano tanti e la differenza tra i due, in termini
epidemiologici si assottiglia. A questo punto conviene riflettere sul
fatto che questi numeri possono variare a seconda della situazione della
sanità nella data regione in cui c’è un’epidemia in corso – perché
anche i presidi sanitari hanno dei numeri, quei numeri – i posti in
terapia intensiva – possono far variare la letalità di un dato virus: se
i contagiati diventano tanti, e i contagiati in situazioni critiche
sono di più dei posti disponibili in terapia intensiva, che già deve
fare posto alle criticità di altre patologie, avremmo delle situazioni
tali per cui banalmente le persone potrebbero morire non potendo essere
sostenute nella fase critica della patologia. Più morti.
Tutte queste cose le scrivo, non tanto o non solo per reggere meglio
un momento difficile per me, ma anche per riflettere su cosa fare
politicamente di questo momento difficile. Fino a poco fa eravamo tutti
presi da Greta Thurnberg e da quello che è riuscita a insegnarci in
merito all’inquinamento, ai rischi per il pianeta, mettendoci in un
certo senso anche in una prospettiva transnazionale, per cui abbiamo un
problema grave sul groppone come soggetti appartenenti a diverse
nazioni, che condividono un rischio collettivo, per cui tutti abbiamo
cominciato a porci l’interrogativo di un comportamento più responsabile e
anche possibilmente un consumo più responsabile. Con i virus ci
troviamo a una conferma che viene da un altro contesto della necessità
di una prospettiva ecologica come prospettiva politica. Perché anche le
nostre epidemie, che a questo punto si paventano come più frequenti,
sono un altro sgradevole esito della crisi ecologica, del nostro modo di
stare al mondo. E forse, dobbiamo come possiamo cominciare a pensare a
questa cosa dell’ecologia come un problema politico.
Infine dobbiamo ripensare a delle questioni che riguardano la cosa
pubblica. Il corona virus è una complicata prova generale, di fronte a
sfide che si riproporranno: perché siamo tanti, siamo diversi, per il
momento la tendenza procede verso l’autolesionismo globale, forse anche
noi siamo bruchi programmati a erodere l’erodibile, e quindi c’è anche
un pensiero da fare sull’arginare le conseguenze di questo nostro
problematico stare al mondo. Rispetto ai bruchi, noi abbiamo una
consistente capacità di variare e programmare i nostri comportamenti,
non solo come soggetti singoli ma anche come soggetti collettivi. La
nostra corteccia frontale è la ragione del nostro successo perché ci
permette un calcolo strategico delle conseguenze, un cambio di rotta dei
nostri comportamenti, dei progetti molto stratificati per proteggerci
come gruppi. Siamo stati convinti e con diverse ragioni, che la mano
invisibile che ci ha portato al progresso, fosse la nostra intelligenza
individuale. La competizione, l’interesse personale, il desiderio di
avere di più. Mi sembra allora che l’occasione di questo contagio –
molto pericoloso e cattivo ma forse meno di altri che potrebbero
arrivare – nelle complicate prove che ci mette davanti, ci offra pure
l’occasione di rivalutare la nostra capacità di azione collettiva, di
azione mirata al gruppo, sia in una prospettiva vasta – il pianeta, il
mondo, le specie, la sostenibilità, che in una prospettiva ristretta, lo
Stato, le strutture sanitarie, le tutele per i cittadini.
Daje, passerà.
Daje, passerà.
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