Dopo l’effetto della paura sui nostri comportamenti, oggi parliamo
di quali sono le basi psicologiche correlate al rispetto delle regole.
Argomento importante in generale ma, soprattutto, in una condizione
particolare come quella che stiamo vivendo
Molte cose sono incerte in questo momento, ma una è certa: l’azione di contenimento dell’epidemia richiede interventi specifici sul comportamento delle persone.
Mentre gli epidemiologi cercano di capire l’andamento dell’epidemia, i
virologi in laboratorio studiano e fanno ricerca per sviluppare un
vaccino o una terapia specifica, medici e infermieri in ospedale cercano
di salvare più vite umane possibile, mentre economisti cercano di
ipotizzare scenari sostenibili futuri, l’azione di contenimento è basata
sul controllo del comportamento delle persone in base alla regola:
dobbiamo distanziarci socialmente, dobbiamo stare a casa.
Il comportamento è influenzato da due fattori principali: l’esperienza diretta, afferro il manico bollente della caffettiera e mi scotto, (e la prossima volta sto ben attento a usare una presina), o l’esperienza trasmessa a parole , “non andare dove non tocchi che affoghi”. La prima è più efficace, la seconda previene da esperienze pericoloso o letali.
L’esperienza diretta funziona nel far percepire alle persone il
pericolo della vicinanza e nel mantenere la gente a casa, principalmente
per le persone che hanno un parente ricoverato in ospedale o un parente
che lavora come medico o infermiere in ospedale; in altre parole per
chi ha avuto esperienza personale della sofferenza e della
preoccupazione. Per gli altri dovrebbe essere sufficiente la
proposizione di una regola che descrive le conseguenze di un
comportamento: dobbiamo stare a casa per limitare le occasioni di
contagio tra persone. Abbiamo visto come la percezione del rischio, per diversi motivi, sia ancora bassa, e troppa gente continui a essere per strada (ogni giorno sempre meno, fortunatamente).
Le regole
Perché una regola funzioni, con un gioco di parole direi che bisogna
rispettare alcune regole, principi che derivano dai dati sperimentali.
Il comportamento da mantenere/modificare deve essere espresso in
modo chiaro, limitando il più possibile le ambiguità, le contraddizioni
e le eccezioni. Mantenere una distanza di 1,5 metri da
un’altra persona è chiaro, comprensibile, misurabile, basato su dati
certi (la distanza che il virus non può superare con il suo vettore, le
goccioline di saliva). Infatti, stando almeno alle immagini delle
persone in fila ai supermercati, funziona.
La regola “state a casa”, e il suo reciproco, “non uscite di casa”,
presentano vari problemi. Impossibile rispettarla letteralmente: troppe
le eccezioni, troppe le interpretazioni. Quali comportamenti “uscire di
casa per” sono consentiti? Acquistare beni necessari (cibo medicine),
andare in posta, andare in banca, andare al lavoro, passeggiare/correre,
aiutare un parente, “scendere” (sic!) il cane, gettare la spazzatura, e
potrei continuare ancora per molto. Con quale frequenza queste uscite
sono consentite? L’uscita del cane 2/3 volte al giorno va bene, ma la
spesa ogni giorno non va bene. Non va bene neanche che la spesa si
faccia nel centro commerciale o nell’iper dei paesi limitrofi invece che
nel supermercato o nel negozio sotto casa, e non va bene neanche che il
povero cane venga portato a fare i suoi bisogni lontano kilometri da
casa (vedere link alla notizia in basso).
Mi fermo per non diventare stucchevole e petulante. Il senso è
questo: se bisogna stabilire regole di comportamento ci si deve affidare
a esperti di comportamento umano, appartenenti a diverse discipline, i
quali possono affrontare in primis un aspetto fondamentale
delle regole: la descrizione delle conseguenze della violazione della
regola. “Attento, che se vai in acqua dove non tocchi bevi e affoghi”:
quante volte abbiamo visto la scena, con un bambino che comincia ad
annaspare e un adulto che prontamente interviene per afferrarlo e
portarlo in sicurezza? In questo caso la conseguenza della violazione
della regola è certa, immediata e naturale.
Se si viola la regola “Non uscite di casa” la conseguenza non è
invece così immediata, diretta e naturale, non è come “se tocchi
l’asciugacapelli con mani e piedi bagnati ti prendi una bella scossa”.
L’effetto del contagio non è lineare e immediato, c’è il periodo di
incubazione, la probabilità (o quanto meno il pensiero) di sfangarla,
l’”overconfidence bias” “ma io sto attento”, la giustificazione
“ma io ho bisogno di…”. La catastrofe è in arrivo, ma non è ancora
visibilmente arrivata pertanto è facile atteggiarsi in modo supponente
all’invito a restare a casa.
Poi c’è un altro fattore per cui gli individui hanno un atteggiamento
sprezzante nei confronti dei consigli di scienziati ed esperti di
salute pubblica. La scienza del comportamento si è occupata della
reattività psicologica, un concetto introdotto già nel 1966 dallo
psicologo sociale americano Jack Brehm, che usa il termine reattanza (reactance)
per descrivere una particolare forma di reazione a regole che
minacciano o limitano alcune libertà di azione. Nelle sue parole, la
reattanza psicologica si riferisce all’idea che nelle situazioni in cui
le libertà individuali sono ridotte o a rischio di riduzione, le
persone sembrano motivate a riconquistare tali libertà. Cioè,
quando ci viene detto che cosa fare o non fare, una parte di noi è
spinta a fare il contrario: popolarmente questo atteggiamento viene
riassunto dalla frase “tutto ciò che è proibito è desiderabile” (antico proverbio arabo).
La reattanza è l’altra faccia della medaglia della compliance
e dell’aderenza, termine con cui si indica il comportamento di seguire
le prescrizioni e le indicazioni terapeutiche (anche i medici conoscono
bene questo problema, dato si stima che il 50 % dei pazienti non segua
correttamente le indicazioni terapeutiche). Ci sono sicuramente fattori
socio-culturali, oltre che individuali, che influenzano questa
reattività, ad esempio la concezione di Stato come bene comune frutto di
un contratto sociale da rispettare (paesi nordici) o il concetto di
libertà individuale che prevale su ogni cosa (Stati Uniti).
Gli esperti
Un altro elemento patogeno, che proviene dagli Stati Uniti e ha
attecchito subito anche in Italia, è il fastidio per la competenza e
verso gli esperti percepiti e etichettati come élite culturali
(“professoroni”) con atteggiamento snob. Inoltre il coronavirus trova
alimento in un virus sociale che è diventato endemico nella nostra
società negli ultimi anni: disinformazione e ignoranza. Tuttavia, chi si
occupa di scienza deve possedere l’umiltà di ricordarsi socraticamente
che, a volte, e in contesti diversi, siamo tutti ignoranti. Dobbiamo
tutti trattarla come una variabile conosciuta, di cui tener conto come
condizione di partenza nell’elaborazione di una strategia
comportamentale di intervento: prima cosa, ricordare che messaggi
contrastanti generano confusione, e sono da evitare come la peste (per
restare in tema).
Di tutti questi fattori i governanti dovrebbero essere consapevoli.
Il momento di dar retta agli esperti (quelli veri riconosciuti dalla
comunità scientifica internazionale, non i ciarlatani) non è più
procrastinabile, perché è grazie a loro che il mondo ha sconfitto
malattie terribili come la poliomielite e resistito a epidemie recenti
come l’Ebola. La Scienza si basa sulla realtà dei fatti, e richiede che i
governanti dicano la verità: minimizzare la gravità della situazione, o
cercare scuse e/o colpevoli (immaginari) per quanto sta accadendo è una
pessima scelta, che oltretutto dà voce e potenzia la reattività: se
penso che tutti ci mentano sono autorizzato a disobbedire alle “loro”
regole.
Le opzioni da scegliere
“L’esempio italiano dimostra che le misure devono essere messe in
atto immediatamente, messe in atto con assoluta chiarezza e fatte
rispettare rigorosamente”. Queste parole sono di Jason Horowitz, sul New
York Times del 22 marzo. In effetti, seppur tardivamente, qualche paese
che aveva atteggiamenti supponenti come quelli descritti nei paragrafi
precedenti, ha poi seguito il suo consiglio.
Sulla chiarezza dal punto di vista comportamentale ho già detto, dal
punto di vista del diritto lascio la parola a chi ne sa (Sabino Cassese
sul Corriere del 24 marzo)
Circa il mettere in atto c’è un punto importante da chiarire: uso una
metafora medica, in modo generico, sperando che il prof. Burioni non me
ne voglia: la somministrazione sottodosaggio di un farmaco, sia un
antibiotico per combattere un’infezione, o un antidolorifico per
attenuare la sofferenza, è una delle scelte peggiori, non ottiene gli
effetti dovuti e presenta comunque la tossicità di ogni farmaco. Il
dosaggio va fatto conoscendo le caratteristiche del soggetto e della
malattia da curare (per questo si consiglia di rivolgersi al proprio
medico curante e di non seguire i consigli del vicino di casa).
Fuori di metafora il consiglio che l’esempio italiano può dare agli
altri paesi (e che i loro governanti non seguiranno) è di partire subito
con il dosaggio giusto, evitando interventi blandi a intensità
progressiva. Il nostro paese sta ancora inseguendo il virus per questo
motivo. Gli esperti sanitari (con qualche eccezione purtroppo) si erano
espressi dall’inizio per una soluzione ad alto (giusto) dosaggio.
Spero sia chiaro a tutti che la soluzione lockdown, cioè
chiusura totale delle attività-rimanere a casa, è necessaria ma non è
sostenibile a lungo. Bisogna pensare ora anche al dopo, e bisogna
pensare in termini strategici, sulla base di dati e di modelli. Tomas
Pueyo, su Medium del 19 marzo, affronta sulla base dei dati il problema
della scelta fra varie opzioni di intervento (mitigare vs sopprimere),
usando la metafora the Hammer and the Dance, il martello e la danza.
L’opzione martello significa agire subito in modo forte, chiusura e
distanziamento totali. Se si adottano strategie di tracciamento dei
contatti come quelle adottate in Cina, Korea, Singapore, questa fase può
essere limitata nel tempo: dipende dalla capacità della popolazione di
seguire disciplinatamente le regole (vedere sopra), in ogni caso
possiamo ragionare in termini di settimane invece che di mesi di blocco e
di isolamento totali.
La fase successiva è quella chiamata la danza. La metafora della
danza viene usata nella psicologia del comportamento anche per
descrivere le interazioni psicologiche genitori-figli, che si
caratterizzano (dovrebbero) come un movimento armonico, sintonizzato,
sincronizzato, agile. Nel caso dell’epidemia COVID-19 significa che dopo
la fase Martello il virus non è stato debellato, però dovrebbe essere
stato messo sotto controllo, per portare la mortalità a un livello
accettabile e per guadagnare tempo in attesa dello sviluppo di un
vaccino. Nella fase Danza continuano attività di quarantena, di test, di
distanziamento sociale e di igiene, ma si eliminano le forme più severe
di restrizione. Si modulano gli interventi in modo mirato a seconda
delle zone e dei contesti, ma si fa riprendere la vita e l’attività di
molte persone.
Ci serve tempo, dobbiamo prendere tempo, dice Pueio. Tempo da usare
per sviluppare e applicare una strategia meditata, basata su dati
attendibili, con il contributo degli esperti di molte discipline, che in
questi giorni si sono espressi pubblicamente sui principali social
media. E abbiamo bisogno anche del “coraggio della speranza”.
Paolo Moderato
https://www.medicalfacts.it
https://www.medicalfacts.it
Fonti:
https://www.ilgiorno.it/bergamo/cronaca/coronavirus-1.5069192
https://www.corriere.it/editoriali/20_marzo_23/dovere-essere-chiari-b5b36828-6d39-11ea-ba71-0c6303b9bf2d.shtml
https://medium.com/@tomaspueyo/coronavirus-the-hammer-and-the-dance-be9337092b56
https://www.lastampa.it/topnews/firme/buongiorno/2020/03/24/news/l-ottimismo-e-la-speranza-1.38629271
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