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24 agosto 2013

Effetto placebo

Non esiste un tipo di personalità più incline di altre a rispondere positivamente ai placebo, e non tutti i placebo funzionano allo stesso modo sulla stessa persona. Il fenomeno sembra piuttosto il frutto di un complesso mix di fattori ambientali e culturali a cui i tratti caratteriali possono contribuire solo in parte.

Non tutti i placebo sono uguali e i pazienti che rispondono a uno di essi non sempre rispondono ad altri. Ottenuto da ricercatori del Massachusetts General Hospital e della Harvard Medical School e pubblicato su “PLoS ONE”, questo risultato indica che non esiste una “firma caratteriale” che contraddistingue le persone che rispondono positivamente alla somministrazione di un placebo. Verosimilmente, questa risposta è un fenomeno comportamentale complesso, al quale concorrono sia fattori personali sia fattori ambientali e di apprendimento per condizionamento o suggestione.
Nel corso dello studio, Jian Kong, primo firmatario dell'articolo, e colleghi hanno testato gli effetti analgesici dell'agopuntura, della simulazione di un trattamento con agopuntura e di una pillola placebo sulla sensibilità al dolore di un gruppo di volontari sani.
Appena prima e subito dopo il trattamento analgesico, autentico o simulato, sull'avambraccio dei partecipanti veniva posto un elettrodo caldo, la cui temperatura veniva gradualmente aumentata. I soggetti dovevano segnalare il momento in cui lo stimolo iniziava a diventare doloroso e quando diventava intollerabile. 
In una seconda sessione sperimentale, a due settimane di distanza dalla prima, i ricercatori hanno poi valutato l'effetto placebo esercitato da tecniche di suggestione e condizionamento attraverso stimoli visivi: ai soggetti era stato detto che la risonanza magnetica funzionale a cui venivano sottoposti durante l'esperimento monitorava il  livello di attivazione dei circuiti cerebrali del dolore, livello che anch'essi potevano osservare in diretta su una scala appositamente predisposta. In realtà, però, i valori mostrati ai soggetti erano prodotti da un programma che generava numeri pseudocasuali.
Dall'esame dei risultati di questi esperimenti e dal confronto con quelli ottenuti con un gruppo di controllo è emerso che non esisteva alcun legame specifico fra i diversi partecipanti e la risposta ai vari trattamenti, mentre si è palesata una correlazione fra l'aspettativa che un certo trattamento fosse in grado di alleviare il dolore e la soglia del dolore e della tolleranza manifestata.
"Ciò implica – ha detto Kong - che le risposte placebo non dipendono da caratteristiche individuali stabili, ma che sono piuttosto una caratteristica delle circostanze in cui si trovano gli individui, o una combinazione di tratti personali e situazione."

10 maggio 2013

Il rilassamento altera l'espressione dei geni

Gli effetti positivi delle tecniche di rilassamento - dalla meditazione allo yoga fino alla preghiera - sono legati a un aumento dell'espressione dei geni che presiedono alla produzione di insulina e di ATPasi mitocondriale, un enzima coinvolto nella generazione di energia, e nella contemporanea riduzione dell'espressione dei geni che modulano alcuni processi infiammatori che possono scatenare l'apoptosi e l'autofagocitosi cellulare

L'espressione dei geni coinvolti nella funzione immunitaria, nel metabolismo energetico e nella secrezione di insulina viene rapidamente alterata dalla risposta di rilassamento indotta nell'organismo da pratiche come lo yoga, la meditazione, il biofeedback e la preghiera. E' questa la conclusione di uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del Massachusetts General Hospital e Beth Israel Deaconess Medical Center della Harvard Medical School diretti da Herbert Benson e Towia Libermann, che firmano un articolo su “PloS ONE.
Mentre la risposta fisiologica allo stress, che è correlata al comportamento “combatti o fuggi”, è stata oggetto di numerosissimi studi che ne hanno chiarito i meccanismi, i processi biologici e genetici coinvolti nella risposta fisiologica allo stato opposto, quello di rilassamento, sono ancora oltremodo oscuri, benché varie ricerche abbiano appurato che le pratiche che lo inducono possono avere effetti benefici su ipertensione, ansia, diabete e invecchiamento.

In questo studio i ricercatori si sono concentrati sul profilo temporale di espressione di circa 22.000 geni in un gruppo di 26 volontari senza alcuna esperienza nelle pratiche di rilassamento. Successivamente ai volontari è stato fatto seguire un corso per l'apprendimento di una delle diverse tecniche di rilassamento disponibili, per testarne quindi nuovamente il profilo di espressione genica subito prima e subito dopo una seduta di rilassamento. I dati raccolti sono stati infine confrontati anche con quelli - ottenuti in occasione di un'analoga seduta di rilassamento - relativi a un gruppo di persone che praticava da tempo tali tecniche. 
Benson e colleghi hanno così scoperto che la risposta di rilassamento induce una sovraespressione dei geni che controllano l'enzima ATPasi e l'insulina, consentendo un aumento della produzione di energia da parte dei mitocondri - che permette alla cellula di far fronte con maggiore efficienza al fabbisogno sotto stress - e una parallela diminuzione della produzione di radicali liberi.

La risposta di rilassamento fa sì che lo stress ossidativo sia attenuato anche dalla sottoregolazione dei percorsi biomolecolari legati al fattore di trascrizione NF-κB (nuclear factor kappa-light-chain-enhancer of activated B cells), coinvolto nei processi infiammatori e nella risposta immunitaria. Ciò comporta una riduzione dei fenomeni di apoptosi (o morte cellulare programmata) e di autofagocitosi, che vengono innescati quando l'apparato mitocondriale della cellula entra in crisi.
Dallo studio emerge anche che, mentre gli effetti della risposta di rilassamento sono più marcati in chi pratica da maggior tempo le relative tecniche, questi effetti sono indipendenti dalla tecnica adottata, che si tratti di meditazione, yoga o preghiera.

24 agosto 2012

La consapevolezza di sé


La consapevolezza di sé, ovvero l’autoriconoscimento della propria esistenza individuale distinta da quella degli altri, potrebbe non essere confinata in modo preciso in alcune aree cerebrali, come ritenuto finora, ma emergere dall’interazione di diversi network neuronali: è quanto sostiene sulle pagine della rivista PLOS ONE gruppo di ricerca dell’Università dell’Iowa guidato da David Rudrauf. La conclusione si è basata sull’osservazione di un unico paziente con estesi danni cerebrali che, nell’attuale modello, avrebbero dovuto compromettere inevitabilmente la sua autoconsapevolezza.
Considerata fin dalle speculazioni filosofiche più antiche una delle capacità più squisitamente umane, la consapevolezza di sé è stata profondamente analizzata anche negli studi di psicologia mediante test classici come il riconoscimento allo specchio. Il test, inoltre, ha allargato notevolmente lo spettro delle specie animali che ne sarebbero dotate almeno in un certo grado, poiché è stato superato non solo dalle scimmie antropomorfe ma anche da delfini, elefanti e polpi.

I neuroscienziati da parte loro hanno individuato il correlato neurologico dell’autoconsapevolezza in tre regioni principalmente: nella corteccia dell’insula, nella corteccia cingolata anteriore e nella corteccia prefrontale mediale.
Questa precisa localizzazione viene ora messa in discussione Questi risultati che tendono a localizzare la consapevolezza di sé in precise porzioni di alcune regioni cerebrali viene ora messa in discussione da Rudrauf e colleghi in virtù delle capacità residue di un unico soggetto, indicato come “paziente R”, un raro caso in cui tutte e tre le regioni cerebrali coinvolte sono state danneggiate.

“Secondo le nozioni finora accettate, quest’uomo avrebbe dovuto
essere una sorta di zombie”, spiega David Rudrauf, coautore dell’articolo apparso su PLoS ONE. “I nostri test dimostrano invece tutt’altro: conoscendolo, ci si rende conto immediatamente che l’autoconsapevolezza non gli manca, pur con le difficoltà di una persona con un notevole danno ai lobi temporali che, producendo gravi amnesie, inficia notevolmente il sé autobiografico”.
In primo luogo, il paziente R ha mostrato ripetutamente di riconoscersi quando si guardava allo specchio oppure quando osservava alcune fotografie realizzate in periodi diversi della sua vita. Oltre a ciò, dimostrava di percepire un’azione come conseguenza delle proprie intenzioni. Se invece gli venivano somministrati più specifici test di misura della personalità, egli mostrava una stabile capacità di pensare a se stesso e di auto-percepirsi, con una profonda abilità d’introspezione, ritenuta una delle sfumature più raffinate dell’autoconsapevolezza.
Il "paziente R" e la consapevolezza di sé
Scansioni in risonanza magnetica della testa del "paziente R" oggetto dello studio: risultano danneggiate le tre aree cerebrali responsabli dell'auto-consapevolezza (Department of Neurology, University of Iowa)
“Ciò che mostra chiaramente la nostra ricerca è che l’autoconsapevolezza corrisponde a processi neuronali che non possono essere localizzati in una o più regioni distinte del cervello”, ha concluso David Rudrauf. “Con tutta probabilità, l’autoconsapevolezza emerge da interazioni molto più distribuite tra network di diverse regioni cerebrali”.
Si ipotizza che a essere maggiormente coinvolti nel sopperire alle mancanze funzionali delle tre regioni cerebrali danneggiate siano il tronco encefalico, il talamo e la corteccia posteromediale.

13 dicembre 2011

LO SBADIGLIO È CONTAGIOSO, TRA AMICI E PARENTI DI PIÙ

STUDIO DELL'UNIVERSITÀ DI PISA E DELL'ISTC-CNR
Tutti sanno che lo sbadiglio è contagioso. Una persona comincia e le altre, in risposta, la imitano. Ciò che finora non era mai stato dimostrato è che lo sbadiglio si trasmette più frequentemente e velocemente tra persone che condividono un legame empatico: amici, parenti stretti, coppie. A fornire per la prima volta l'evidenza etologica che la trasmissione dello sbadiglio è una forma di 'contagio emotivo' è lo studio condotto da Ivan Norscia ed Elisabetta Palagi, dell'Università di Pisa (Museo di storia naturale e del territorio) e dell'Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche (Istc-Cnr) di Roma, pubblicato su PlosONE.
"Lo sbadiglio spontaneo, non sollecitato da altri sbadigli, è un comportamento evolutivamente molto antico, presente già nei pesci ossei che popolano il nostro pianeta da almeno 200 milioni di anni. A seconda del gruppo animale nel quale si ritrova, può indicare stress, noia, stanchezza o segnalare un cambio di attività, ad esempio dal sonno alla veglia e viceversa", spiega Elisabetta Palagi, dell'Unità di primatologia cognitiva dell'Istc-Cnr. "Lo sbadiglio 'contagioso' è un fenomeno completamente diverso, più 'moderno', dimostrato finora solo in alcune scimmie (scimpanzè e babbuini gelada) e nell'uomo e ipotizzato anche per animali con capacità cognitive e affettive sviluppate come il cane. Nell'essere umano normalmente lo sbadiglio può essere evocato da un altro sbadiglio entro 5 minuti".
Lo studio, sostenuto anche dal Giardino zoologico di Pistoia, dal Parco zoo Falconara (An) e dal Parco zoo Punta Verde di Lignano Sabbiadoro (Ud), si fonda su una rigorosa raccolta di dati etologici, effettuata nel corso di un anno su più di 100 adulti e corrispondenti a oltre 400 coppie di 'sbadiglianti', osservati nei contesti più disparati: durante i pasti, sul treno, al lavoro, etc. Le osservazioni, svolte in Italia e Madagascar, hanno coinvolto persone di diverse nazionalità e le coppie includevano persone tra loro sconosciute, conoscenti che si frequentano solo perché uniti da un terzo elemento comune, come il lavoro o un amico, amici che si frequentano per scelta, parenti stretti quali nonni/nipoti, genitori/figli, fratelli e compagni di vita.
"Un'analisi statistica basata su modelli lineari misti (Lmm, Glmm) ha rivelato che la presenza e la frequenza di contagio non è influenzata da differenze di contesto sociale o dalle modalità di percezione (sentire uno sbadiglio evoca una risposta tanto quanto vederlo, o vederlo e sentirlo), ne' da differenze di età, di genere o di nazionalità", prosegue Ivan Norscia, dell'Università di Pisa. "Ciò che influenza il contagio e' la qualità della relazione che lega chi sbadiglia e chi 'riceve'. È più probabile che una persona 'ricambi' se ad aver sbadigliato è una persona amata. Lo studio rivela un trend preciso: il contagio è massimo tra familiari o coppie e diminuisce progressivamente tra amici, conoscenti e sconosciuti, in cui è minimo. Anche la latenza di risposta, cioè il tempo di reazione, è minore in familiari, amanti e amici rispetto a conoscenti o sconosciuti".
A favore di questa ipotesi ci sono anche dati neurobiologici. "Esistono studi che mostrano come le zone del cervello che si attivano durante la percezione di uno sbadiglio altrui sono in parte sovrapposte a quelle legate alla sfera emotiva", conclude Elisabetta Visalberghi, coordinatore Unità di primatologia cognitiva - Istc-Cnr. "Possiamo quindi dire che lo sbadiglio può essere indice non solo di noia, ma di empatia".

6 gennaio 2011

Omo & Etero

Eterosessuale od omosessuale, l'amore è sempre lo stesso

Che si tratti di uomini o donne, di un rapporto eterosessuale od omosessuale, l'amore romantico è sempre lo stesso, indistinguibile in termini di attività cerebrale: lo stabilisce uno studio, pubblicato sulla rivista on line ad accesso pubblico PLoS One condotto da Semir Zeki e John Romaya, del Wellcome Laboratory of Neurobiology presso l'University College di Londra.
In questa ricerca, che completa un loro precedente lavoro dedicato alla descrizione dell'attività cerebrale connessa all'amore romantico e all'amore materno, a 24 soggetti sono state mostrate le immagini dei rispettivi partner e di amici dello stesso sesso del partner rispetto ai quali non nutrivano sentimenti affettuosi mentre la loro attività cerebrale; contemporaneamente veniva monitorata con risonanza magnetica funzionale la loro attività cerebrale.
I soggetti, di età compresa fra i 19 e i 47 anni, avevano in corso una relazione appassionata che durava da un minimo di 4 mesi a un massimo di 23 anni. Metà dei soggetti erano donne (6 eterosessuali e 6 omosessuali) e metà maschi (6 eterosessuali e 6 omosessuali).
L'analisi dei dati ottenuti ha mostrato uno schema di attività cerebrale del tutto simile in tutti e quattro i gruppi, con il coinvolgimento di aree corticali e sottocorticali, soprattutto in aree in cui è particolarmente attivo il sistema dopaminergico, a sua volta legato all'attività di altri neuromediatori come l'ossitocina e la serotonina.
Lo studio ha anche mostrato che quando i soggetti - eterosessuali o omosessuali, maschi o femmine che fossero - vedevano l'immagine del loro partner si verificava una forte sotto-attivazione di una estesa parte della corteccia cerebrale, ivi comprese le aree che sovrintendono al giudizio critico.
"L'amore romantico appassionato è comunemente innescato da un input visivo e costituisce uno stato di disorientamento pervasivo. Studi precedenti hanno mostrato che a dispetto della complessità di questa emozione, gli schemi cerebrali attivati quando si osserva il viso di qualcuno che si ama sono limitatati a poche regioni cerebrali, sia pure estremamente connesse". ha osservato Zeki.