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11 agosto 2014

Cervello. Individuato il meccanismo con cui percepisce la sazietà

Durante il pasto, il segnale di sazietà prodotto dall'intestino, dal lipide oleoiletanolamide, viene 'tradotto' da specifiche aree cerebrali che utilizzano l’istamina come neurotrasmettitore. Il meccanismo, come una sorta di 'interruttore' della fame, favorisce la cessazione dell'attività alimentare. A scoprirlo, un team dell’Università di Firenze, il Cnr e la Sapienza Università di Roma. Lo studio* su PNAS

È stato identificato il meccanismo chiave con cui il nostro cervello traduce alcuni segnali periferici di sazietà: l’istamina attiva determinate aree cerebrali (ipotalamo), veicolando il segnale di sazietà prodotto dall'intestino durante il consumo del pasto da parte del lipide oleoiletanolamide. A scoprire come avviene questo processo - in particolare alcune modalità del collegamento tra l’istamina e il lipide - è l’Università di Firenze e l’Istituto di biologia cellulare e neurobiologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibcn-Cnr) di Roma, in collaborazione con il Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia della Sapienza Università di Roma. Lo studio* è stato pubblicato su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences).

“Abbiamo scoperto”, spiega Maria Beatrice Passani, ricercatrice del Dipartimento di Neuroscienze, Area del Farmaco e Salute del Bambino (Neurofarba) dell’Ateneo fiorentino, “che il segnale di sazietà prodotto dall’intestino durante il consumo di un pasto da parte di un lipide, l’oleoiletanolamide (Oea), attiva aree specifiche del cervello che usano l’istamina come neurotrasmettitore, favorendo così la cessazione dell’attività alimentare”.

L’oleoiletanolamide è un composto lipidico rilasciato dagli enterociti, cellule nei villi intestinali, in risposta al consumo di grassi. Tale composto indirettamente segnala la sazietà ai nuclei ipotalamici, attivando fibre sensoriali del nervo vago che proiettano il segnale a livello centrale. L’istamina cerebrale viene rilasciata durante la fase dell’appetito, fornendo alti livelli di sollecitazione prima del pasto e media la sazietà. Essa funziona come un segnalatore di sazietà attivando il recettore dell'istamina H1 in specifici nuclei ipotalamici. Insomma, l'istamina potrebbe essere paragonata ad un 'segnalatore' della fame, che indica quando è cessato l'appetito.

“Le prove sperimentali raccolte in questo studio”, prosegue Roberto Coccurello dell’Ibcn-Cnr, al cui fianco hanno lavorato per lo stesso istituto Giacomo Giacovazzo e Anna Moles, “dimostrano per la prima volta che l’effetto anoressizzante di Oea viene drasticamente attenuato sia in animali privi della possibilità di sintetizzare istamina, sia in animali le cui riserve neuronali di istamina sono state temporaneamente inattivate attraverso la somministrazione diretta nel cervello di un agente inibitore. Grazie alla nostra ricerca siamo riusciti a individuare la natura dei neurotrasmettitori implicati e a comprendere i meccanismi attraverso cui determinate popolazioni di cellule nervose (neuroni) presenti nel cervello a livello dell’ipotalamo traducono l’informazione mediata da Oea  sullo stato nutrizionale dell’organismo e sul corrispondente livello di sazietà. È stato identificato quindi nel sistema neurotrasmettitoriale dell’istamina una delle componenti fondamentali per veicolare il messaggio di sazietà generato da Oea a livello intestinale”.

“La conoscenza di questi meccanismi neuronali, che assolvono un ruolo essenziale nel comportamento alimentare, in quanto contribuiscono alla riduzione dell’appetito, offre nuove prospettive per sviluppare farmaci più efficaci e sicuri per il trattamento dell'obesità, che mirino a incrementare il rilascio di istamina nel cervello”, conclude Passani, al cui fianco hanno lavorato – nel team fiorentino - Gustavo Provensi, Hayato Umehara, Leonardo Munari, Nicoletta Galeotti e Patrizio Blandina.

Viola Rita (QS)

* G. Provensi et al., "Satiety factor oleoylethanolamide recruits the brain histaminergic system to inhibit food intake", Proceedings of the National Academy of Sciences, Luglio 2014, doi: 10.1073/pnas.1322016111

21 aprile 2014

Il ritmo circadiano anomalo del cervello depresso

Dimostrato sperimentalmente per la prima volta nell'essere umano che anche i geni delle cellule cerebrali seguono specifici ritmi di attivazione circadiani. Nelle persone che soffrono di depressione, tuttavia, fra questi ritmi viene a mancare la corretta sincronizzazione, con uno sfasamento che ha un impatto significativo sulla regolazione di numerosi processi neurali, e quindi sui comportamenti

Nei pazienti affetti da depressione maggiore i cicli giornalieri di espressione genica nel cervello sono interrotti. A dimostrarlo è uno studio condotto da ricercatori dell'Università del Michigan e dell'Università della California a Irvine, che firmano un articolo su “Proceedings of the National Academy of Sciences”.

Uno dei classici sintomi della depressione maggiore sono i disturbi del sonno, espressione della rottura dei ritmi circadiani, che si ritengono collegati ai cicli di espressione dei geni. Finora, tuttavia, la ritmicità circadiana dell'espressione genica era stata però documentata solo nell'animale e, per quanto riguarda l'uomo, solamente in tessuti periferici e ma non nel cervello, poiché richiede il prelievo di tessuti per la valutazione del trascrittoma (ossia il complesso dei fattori di trascrizione relativo ai diversi geni).

Per il presente studio - che fornisce la descrizione più completa finora realizzata del trascrittoma cerebrale di una specie diurna, definendo circa 12.000 trascritti nella corteccia dorsolaterale prefrontale, corteccia cingolata anteriore, l'ippocampo, amigdala, nucleo accumbens, e nel cervelletto  – sono stati prelevati post mortem campioni di tessuto cerebrale di 34 pazienti depressi e di 55 controlli non affetti da problemi psichiatrici o malattie neurologiche.

L'analisi dei dati ha permesso di dimostrare una fondamentale coerenza delle relazioni di fase nelle attivazioni geniche tra mammiferi, confermando gli schemi di attivazione ciclica della maggior parte dei geni circadiani noti.

In particolare, il modello di attivazione dei ritmi circadiani usato dai ricercatori ha permesso di risalire dal profilo di espressione dei geni all'ora del decesso dei 55 soggetti di controllo, confermata dalle cartelle cliniche. I profili dei soggetti depressi sono invece risultati sfasati di alcune ore, evidenziando alterazioni nella ritmicità circadiana in sei regioni.

Il ritmo circadiano anomalo del cervello depresso
I ricercatori hanno utilizzato modelli di espressione genica per prevedere il momento della morte dei soggetti dello studio (cerchi interni), che hanno confrontarlo con l'ora del decesso registrata nelle cartelle cliniche (cerchi esterni). I due momenti sono strettamente vicini nelle persone sane, come mostrano le brevi linee tra i due punti nel diagramma di sinistra. Ma nelle persone depresse sono  fuori sincrono, come si vede a destra.



Queste alterazioni possono interrompere le relazioni fra le fasi di attivazione tra i singoli geni circadiani e avere un impatto significativo sulla regolazione di numerosi processi neurali e quindi dei comportamenti, coerentemente con la vasta gamma di sintomi depressivi.

In complesso, sono state identificate alcune centinaia di geni che mostravano un chiaro ritmo circadiano, alcuni noti, ma molti altri no, come per esempio il gene per il recettore per la lipoproteina a bassa densità e il gene INSIG1, noti per essere coinvolti nella sintesi dei lipidi e metabolismo, o ancora il gene per il recettore per l'ipocretina, HCRTR2, importante per la regolazione del sonno e della veglia.

La scoperta del ritmo circadiano di questi geni, osservano i ricercatori, apre le porte alla possibilità di identificare nuovi biomarcatori per la depressione, ossia molecole che segnalano il disturbo e che possono essere rilevate nel sangue, nella pelle o nei capelli.

Resta ora da capire perché l'orologio circadiano sia alterato nella depressione. “Abbiamo bisogno di imparare di più sulla natura dell'orologio stesso, e capire se, resettando l'orologio, sia possibile aiutare le persone a stare meglio", ha detto note Huda Akil, uno degli autori dello studio.

19 dicembre 2013

Parlare di emozioni aumenta l'empatia nei bambini

Secondo uno studio dell’Università di Milano-Bicocca, condotto in collaborazione con l’Università di Manitoba del Canada, i bambini che vengono sollecitati a parlare di emozioni sono più empatici e migliorano alcune abilità cognitive. I ricercatori hanno analizzato cinque emozioni: colpa, rabbia, paura, felicità e tristezza. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Journal of Experimental Child Psychology 

Rabbia, paura, colpa, felicità e tristezza. Se i bambini ne parlano, in piccoli gruppi e sotto la guida di un adulto, riescono a essere più empatici e migliorano le loro capacità cognitive. È il risultato di uno studio (Veronica Ornaghi, Jens Brockmeier, Ilaria Grazzani Enhancing social cognition by training children in emotion understanding: A primary school study DOI:10.1016/j.jecp.2013.10.005) condotto dai ricercatori del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università di Milano-Bicocca e pubblicato sul “Journal of Experimental Child Psychology”, nell’ambito del progetto PRIN del 2008 Star bene a scuola: il ruolo della teoria della mente nel favorire lo sviluppo socio-motivo e cognitivo nella scuola primaria.   

Sulla scia dei risultati conseguiti in due precedenti studi, condotti dallo stesso team con bambini tra i 3 e i 5 anni, la ricerca, svolta in collaborazione con l’Università di Manitoba del Canada, ha coinvolto 110 bambini delle scuole elementari dell’hinterland milanese. I bambini, distribuiti in un gruppo sperimentale e in uno di controllo, avevano tra i 7 e gli 8 anni. Quattro le fasi dello studio: pre-test, training, post-test e follow-up. Nella fase di pre-test sono state proposte ai bambini prove individuali di “comprensione delle emozioni”, di “empatia” e di ”teoria della mente” (prova cognitiva), per valutare il livello di partenza. Poi si è passati alla fase di training che è durata circa due mesi. Durante questo periodo, i bambini del gruppo sperimentale, dopo aver ascoltato delle storie a contenuto emotivo, venivano coinvolti nelle conversazioni sulla comprensione della natura, delle cause e della regolazione delle emozioni. Per promuovere la partecipazione attiva di tutti i bambini, il gruppo è stato a sua volta suddiviso in piccole classi di
circa sei bambini. Le attività si sono concentrate su cinque emozioni, di cui quattro di base (felicità, rabbia, paura e tristezza) e una complessa (senso di colpa). Ciascuna di queste emozioni è stata oggetto di conversazione per tre incontri: il primo focalizzato sulla comprensione dell’espressione, il secondo sulla comprensione delle cause e il terzo sulla comprensione delle strategie di regolazione dell’emozione target. Ogni incontro è stato strutturato in quattro momenti: introduzione al tema da parte dell’adulto, un racconto di vita quotidiana, avvio della conversazione, e riflessione finale da parte dell’adulto (leggi la scheda col dettaglio dell’esperimento).

I bambini del gruppo di controllo, invece, ascoltavano le storie e in seguito facevano un disegno, non partecipando dunque alla conversazione. Nella fase post-test, ai bambini sono state nuovamente proposte le prove; infine, dopo due mesi, a tutti i partecipanti è stata riproposta la prova di comprensione delle emozioni per verificare la persistenza degli effetti prodotti dall’intervento.

E’ emerso che il gruppo dei bambini sottoposti all’intervento migliora significativamente, rispetto al gruppo di controllo, in vari aspetti della comprensione delle emozioni, nella dimensione cognitiva dell’empatia, e nella prova cognitiva di teoria della mente.

La spiegazione dei risultati sta nell’uso della conversazione in piccolo gruppo, che ha favorito il decentramento cognitivo, l’assunzione del punto di vista dell’altro, la consapevolezza delle differenze individuali e il collegamento – da parte dei bambini - tra mondo interno non visibile e azioni manifeste.
«La novità dello studio – spiega Ilaria Grazzani, coordinatrice della ricerca e docente di Psicologia dello sviluppo e psicologia dell'educazione - consiste proprio nell’avere scoperto che l’intervento sulle emozioni produce miglioramenti anche nella capacità cognitiva di “teoria della mente”, ovvero nella capacità che consente di prevedere i comportamenti degli altri sulla base dell’inferenza dei loro stati mentali (“se ha fatto questo, forse è perché desiderava qualcosa; “se ha agito in un certo modo doveva essere arrabbiato”)».

«All’interno della scuola primaria tradizionalmente deputata all’insegnamento dei saperi curriculari– aggiunge Veronica Ornaghi, assegnista di ricerca –, è possibile realizzare interventi che, oltre a potenziare le abilità socio-emotive, come la comprensione delle cause delle emozioni, l’empatia e l’aiuto nei confronti dell’altro, producono anche miglioramenti su capacità di tipo cognitivo, per esempio, rappresentarsi la mente dell’altro e prevederne i comportamenti, un’abilità indispensabile nella vita sociale».


22 novembre 2013

Analogico, cioè intelligente


Il filosofo dell’intelligenza americano Douglas Hofstadter è di ritorno con un volume che ricorda, per mole e densità, il celebre Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante (“Geb” per gli appassionati), tradotto negli anni Ottanta da Adelphi.

Un trentennio dopo, le pagine zigzagano nuovamente fra i meandri del pensiero umano, lasciando questa volta più sullo sfondo i paragoni con l’intelligenza artificiale. Nella nuova impresa, inoltre, Hofstadter è affiancato dallo psicologo sperimentale francese Emmanuel Sander. Uscita innanzitutto proprio in Francia, con il titolo L’analogie. Coeur de la pensée (“L’analogia. Cuore del pensiero”; Odile Jacob, pagine 688, euro 31,90), la summa riunisce un numero impressionante di esempi – ordinari, linguistici, pedagogici, storici e scientifici – per dimostrare che l’intelligenza umana non è un semplice operatore logico, ma impiega invece sempre una funzione cognitiva più sfuggente, raffinata e ricca: l’analogia. Sander, docente all’Università di Parigi 8, ha accettato di parlarci della nuova teoria sviluppata in un volume che fra l’altro strizza spesso l’occhio alla cultura e alla lingua italiana.

Professore, lei sostiene con Douglas Hofstadter che ragioniamo tramite analogie. Come le definirebbe?
«Per restare all’essenziale, si tratta di paragoni mentali, generalmente fra qualcosa che è esterno a noi e qualcosa d’interno. Ovvero, fra un avvenimento esterno e una conoscenza, un concetto che possediamo già. In modo quasi sistematico, ciò implica un legame fra presente e passato, anche se talora può trattarsi di un passato molto recente».

Questa visione contraddice le famose categorie logiche mentali?
«La nostra teoria è in contrasto con due visioni classiche. Innanzitutto, con la tradizione delle categorie aristoteliche, secondo la quale esiste una segmentazione oggettiva del mondo, indipendente dall’essere umano. Mettiamo in evidenza che le categorie sono costruzioni mentali. Attraverso analogie successive, è l’essere umano a sviluppare delle categorie. Le categorie non sono scaffali, ma strutture psicologiche dinamiche ed evolutive che possono affinarsi durante tutta la vita. Al contempo, critichiamo lo statuto classico della logica. L’uomo affronta il mondo e ciò che lo circonda grazie a dei paragoni mentali, cercando nel proprio cervello le situazioni più simili a quelle vissute in un dato momento. Queste somiglianze possono essere talora abbastanza astratte e non solo percettive. Ma in ogni caso tali somiglianze non dipendono dalla logica, la quale è invece piuttosto un sottoprodotto dell’analogia. La logica, dunque, non è incisa nel nostro funzionamento mentale».

Cosa significa che “i concetti sono come città”?
«I concetti o le categorie, termini che sono per noi sinonimi, si sviluppano a partire da un centro storico, corrispondente alle nostre prime esperienze dell’infanzia. A partire dall’esperienza immediata della propria mamma, il bambino apprende in fretta per analogia il concetto più generale di “mamma”, fino ad approdare, con un’analogia più raffinata, verso quello ancora più esteso di “madre”. Ciò è vero per tutti i concetti. In quest’ottica, i cosiddetti archetipi o stereotipi sono spesso il centro storico di molti concetti».

Nella vecchia diatriba filosofica fra intelligenza innata o acquisita, quale campo scegliere?
«Siamo più sulla sponda empirica, ma sosteniamo che ciò che si acquisisce sviluppa delle astrazioni. Per noi, dunque, l’intelligenza non è una semplice collezione di esperienze, dato che le analogie sono supporti naturali per sviluppare astrazioni, dunque concetti astratti».

Alla luce di questa visione, i primi mesi di vita sono cruciali?
«l meccanismo dell’analogia comincia fin dai primi attimi, ma è destinato a proseguire durante tutta la vita. Non è dunque corretto dire che tutto si gioca nell’infanzia, perché l’evoluzione dei nostri pensieri è permanente, soprattutto quando viviamo esperienze forti. Ciò è vero anche per i fatti di attualità. Si pensi all’11 settembre, che ha dato vita a un nuovo autentico concetto presto diffuso in tutto il mondo».

Questa teoria poggia già su precise ricerche sperimentali o spera invece di suscitarne?
«L’uno e l’altro. La psicologia sperimentale mostra già in molti casi che apprendiamo attraverso analogie e ciò del resto permette in parte di prevedere ciò che si apprenderà. Inoltre, sappiamo pure che a scuola certe analogie inducono di frequente in errore, per esempio in matematica. Ma speriamo pure di suscitare un nuovo vasto slancio di ricerca in questo campo».

Per decenni, si è cercato di paragonare intelligenza e struttura delle lingue. Una pista infelice?
«Per noi, la lingua è uno degli indicatori esterni del funzionamento del pensiero e in particolare dei concetti. Ma il cuore del problema è il modo in cui gli esseri umani sviluppano i concetti. Il nostro lavoro sfugge dunque completamente a una certa tendenza novecentesca a cercare ad ogni costo le strutture del pensiero, talora prendendo in prestito modelli linguistici. La nostra teoria parte dall’esperienza. Per numerosissimi concetti, inoltre, non esistono né parole, né espressioni linguistiche semplici».

L’analogia è sempre relazionale. Paragonando il cognitivismo all’antropologia culturale, ciò fa pensare alla svolta introdotta dalla “teoria mimetica” di René Girard. Che ne pensa?
«È un’analogia interessante e difendibile. Per noi, è centrale proprio il fatto che ogni relazione nutre e sviluppa il nostro pensiero. Ciò include le imitazioni più semplici, così come le estrapolazioni più astratte. Si pensi a un caso di empatia semplice: quando abbiamo fame, chiediamo spesso anche al nostro interlocutore se ha fame. Il punto comune è sempre la ricerca di una somiglianza. Questo, a livelli di astrazione estremi, diventa pure il motore delle più affascinanti scoperte, come nel caso di Einstein o di altri fra i più grandi scienziati, spesso propensi a pensare che il mondo fisico-matematico funziona in modo simmetrico, elegante, obbedendo a una certa coerenza della natura. In questi casi, l’analogia rima pure con una certa forma di ottimismo conoscitivo».

Tutto ciò ci aiuta pure a comprendere meglio le differenze fra intelligenza umana e computer?
«Sì. Ad esempio, ciò è molto evidente nel caso dei programmi informatici di traduzione automatica. I concetti sono il nostro modo sempre diverso di dare senso a ciò che ci circonda e tutto questo manca all’intelligenza artificiale, la quale, basandosi solo su repertori o correlazioni statistiche, non potrà mai simulare fino in fondo il pensiero creativo di un traduttore umano. Quest’ultimo comincia sempre comprendendo ciò che legge, ovvero ricostruendo situazioni, al di là delle parole che ha di fronte. Per questo, benché spesso molto utili, anche i più sofisticati programmi di traduzione continuano a generare catastrofi».

Daniele Zappal, Avvenire 07.11.13

19 ottobre 2013

Possiamo sbagliare a interpretare le emozioni altrui, ma il cervello ci corregge

Comunicato stampa - Capita di interpretare le emozioni degli altri sulla base delle nostre, e questo talvolta può causare errori. Per fortuna nel cervello esistono meccanismi di correzione: gli scienziati della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste hanno individuato un’area cerebrale dove questo meccanismo avrebbe sede
 
Trieste, 10 ottobre 2013 - Quando siamo tristi, il mondo sembra piangere con noi. Quando al contrario siamo felici tutto risplende e i visi di chi ci sta intorno sembrano riflettere la nostra gioia. Questi meccanismi di proiezione delle proprie emozioni sugli altri sono ben noti agli scienziati che li ritengono essere alla base della capacità di interpretare e mettersi in relazione con gli altri. Tuttavia in alcune condizioni possono generare errori grossolani (chiamati bias egocentrico emotivo, EEB) e per evitarli entrano in gioco meccanismi cerebrali di correzione, oggi ancor poco studiati. Giorgia Silani, neuroscienziata della SISSA, insieme a un gruppo internazionale di ricercatori ha individuato un’area del cervello implicata in questo processo di aggiustamento. Lo studio è stato pubblicato su The Journal of Neuroscience.

Negli esperimenti i ricercatori hanno innanzitutto misurato la tendenza dei soggetti a fare questo tipo di errori. Grazie alla risonanza magnetica funzionale hanno poi individuato un’area cerebrale in cui l’attività era chiaramente più intensa proprio quando i soggetti sperimentali commettevano degli errori EEB. L’area incriminata è il giro supra-­?marginale destro, una zona ancora relativamente sconosciuta all’interno delle neuroscienze sociali.

In una terza serie di esperimenti i ricercatori hanno anche provato a “disturbare” l’azione di quest’area cerebrale, inducendone un temporaneo spegnimento attraverso la tecnica della stimolazione magnetica transcranica, una metodologia (innocua) in grado di silenziare brevemente l’attività elettrica dei neuroni. Silani e colleghi hanno osservato che in corrispondenza degli “spegnimenti” i soggetti commettevano significativamente più errori EEB della media, confermando il ruolo cruciale di quest’area cerebrale.

“I risulati di questo studio”, spiega Silani “mostrano per la prima volta quali sono i marker fisiologici di meccanismi sociali altamente adattivi, come la capacità di sopprimere i propri stati emotivi per valutare correttamente quelli degli altri. Future ricerche ci permetteranno di comprendere come queste capacità si sviluppano e decadono nel corso del tempo, e come sarà possibile allenarle”.

14 maggio 2013

Biochimica del cervello, i segreti della paura

Il cervello è sicuramente uno degli organi più complessi e affascinanti del corpo umano. E probabilmente, anche uno dei meno compresi. Oggi uno studio che ha visto la collaborazione italiana ha svelato un altro pezzetto dei meccanismi che regolano il sistema nervoso, quello che riguarda la biochimica della mente umana nel caso si provi paura. Uno studio che ha riguardato due molecole, la D-serina e la glicina – implicate nell’attivazione dei recettori NMDA e quindi in una serie di funzioni fondamentali del cervello, tra le quali l’apprendimento, la memoria e il controllo dell’attività motoria – ha infatti in particolare analizzato il loro ruolo nella gestione di questa emozione. Argomento tanto importante da esser valso alla Harvard Medical School di Belmont (Boston) e al laboratorio di Post-genomica funzionale ed ingegneria proteica del Dipartimento di Biotecnologie e Scienze della Vita dell’Università dell’Insubria sede di Varese, la pubblicazione su Nature Communication.

 “Definire i meccanismi che concorrono alla regolazione dell’attività di questi recettori è fondamentale per comprendere il funzionamento del cervello e per studiare malattie neurologiche e psichiatriche”, ha spiegato Loredano Pollegioni, direttore del centro di ricerca interuniversitario “The Protein Factory”. “La capacità di memorizzare, i sentimenti che proviamo, il perché un certo evento susciti in ciascuno di noi una determinata emozione sono processi regolati da precisi fenomeni biochimici: chiarire il ruolo dei neuromodulatori, ossia le molecole che agiscono su diverse regioni del cervello rendendoci quello che siamo, ci aiuterà a capire questo organo e a trovare nuove terapie per pazienti affetti da importanti patologie come la schizofrenia, il disturbo bipolare o il dolore neuropatico»”
Nello specifico, gli scienziati si sono concentrati sull’amigdala, una zona del cervello importante per gestire le emozioni e specialmente la paura. Hanno scoperto che in condizioni “normali” il ruolo principale di modulatore del recettore NMDA lo svolge la D-serina, mentre, all’aumentare dello stato di eccitazione delle sinapsi, la stessa funzione è svolta dalla glicina.

Questo lavoro segue altre due recenti pubblicazioni dello stesso gruppo che hanno avuto un notevole riscontro nella comunità scientifica: la rivista Brain ha pubblicato recentemente un lavoro in collaborazione con l’Università Cattolica di Roma che ha evidenziato come alla base dei danni cerebrali dovuti all’abuso di cocaina vi sia un abbassamento dei livelli di D-serina; la rivista Cell nel 2012 ha riportato i risultati di esperimenti di elettrofisiologia condotti nella regione CA1 dell’ippocampo che hanno dimostrato come l’attività dei recettori NMDA localizzati nello spazio sinaptico ed extrasinaptico sia modulata rispettivamente dalla D-serina e dalla glicina.
Queste ricerche sono state possibili grazie alla messa a punto di specifici sistemi analitici: la dottoressa Silvia Sacchi e il professor Loredano Pollegioni del Centro di ricerca interuniversitario “The Protein Factory” hanno sviluppato mediante tecniche di ingegneria proteica enzimi in grado di riconoscere efficientemente e selettivamente i diversi neuromodulatori. Questi risultati sottolineano il grado di eccellenza della ricerca nel settore delle biotecnologie applicate alle neuroscienze e più in generale alla salute umana dei ricercatori dell’Università dell’Insubria.

13 maggio 2013

Fotografie antidolorifiche

Tenere per mano la persona amata riduce la nostra percezione del dolore. Questo è qualcosa che sappiamo a livello innato, ed è per questo che spesso negli ambulatori medici vediamo le madri che tengono per mano i loro piccoli.
Tuttavia, ora un nuovo studio ci presenta un nuovo trucco che potrebbe aiutarci a controllare il dolore: vedere le foto delle persone che amiamo aiuterebbe a combattere il dolore.
Alcuni psicologi dell’Università della California, hanno coinvolto 25 donne sottoponendole ad una serie di stimoli dolorosi come ad esempio forti pizzicori o sensazione di freddo estremo. Si sono creati quattro gruppi; nel primo i compagni le tenevano per mano mentre si provocavano gli stimoli dolorosi, nel secondo potevano vedere una foto di una persona amata, al terzo veniva mostrata una foto di una persona completamente sconosciuta e infine nel quarto gruppo era un estraneo che teneva per mano la donna. Come si può immaginare, la percezione del dolore si ridusse considerevolmente quando le donne tenevano la mano del compagno o potevano vedere la sua foto.
A confermare questo studio interviene una ricerca realizzata di recente da neuro scienziati dell’Università di Stanford. In questa occasione vennero coinvolte 15 donne, a queste venne chiesto di concentrarsi sulle foto dei loro partner o su quelle di estranei attraenti. Durante l’esperimento si scandivano i loro cervelli e si applicavano stimoli dolorosi al palmo della mano. Alla fine si è potuto riscontrare che la vista delle foto di persone sconosciute (per quanto attraenti fossero) non riduceva la sensazione di dolore ma vedere la foto del partner sì. Precisamente, la vista della foto della persona amata riduceva la percezione del dolore tra il 36 ed il 44%. Ma… cosa stava accadendo al cervello?
Le foto delle persone amate attivavano quelli che si conoscono come i “centri della ricompensa”; cioè, l’amigdala, l’ipotalamo e la corteccia orbito-frontale. Nello stesso tempo, riduceva l’attivazione di altre zone cerebrali come l’insula. I ricercatori considerano che le foto delle persone amate non rappresentano una semplice distrazione ma piuttosto agirebbero come una sorta di droga che può calmare efficacemente la sensazione di dolore.
Fonti:
Younger, J. et. Al. (2010) Viewing Pictures of a Romantic Partner Reduces Experimental Pain: Involvement of Neural Reward Systems. PLoS ONE; 5(10).
Master, S. L. et. Al. (2009) A Picture's Worth. Partner Photographs Reduce Experimentally Induced Pain.Psychological Science; 20(11): 1316-1318.
 
Originale

11 marzo 2013

Settimana Mondiale del Cervello 2013 – Brain Awareness week

La “Settimana Mondiale del Cervello” si propone di richiamare l’attenzione su questo meraviglioso organo che ancora cela molti segreti, nonostante le importanti scoperte di questi ultimi anni. Coordinata dalla European Dana Alliance for the Brain in Europa, dalla Dana Alliance for theBrain Iniziatives e dalla Society for Neuroscience negli Stati Uniti, la Settimana Mondiale del Cervello è il frutto di un enorme coordinamento internazionale a cui partecipano le Società Neuroscientifiche di tutto il mondo e dal 2010 anche la Società Italiana di Neurologia. La maggior parte delle malattie che colpiscono il cervello hanno un’evoluzione cronica e giorno dopo giorno erodono le funzioni nervose, limitando progressivamente la piena partecipazione alla vita. Diventa quindi fondamentale diagnosticare precocemente le malattie neurologiche, perchè oggi per molte di esse esistono terapie adeguate che però sono efficaci solo se usate tempestivamente. Time is brain! 
prof. Giancarlo Comi
Presidente SIN

7 febbraio 2013

il "bello"


Il concetto di  bello è molto soggettivo ma anche molto diverso tra uomini e donne... Così diverso che nei due sessi è associato all'attività cerebrale di due aree differenti.

Se con la vostra metà non riuscite mai a trovare un accordo sul colore delle pareti o sul rivestimento del divano, non prendetevela: è questione di evoluzione! Il senso del bello cambia infatti tra uomini e donne; a confermarlo non ci sono solo gli studi comportamentali, ma anche una ricerca effettuata nel 2008 da un team internazionale di scienziati. 
Camilo J. Cela-Conde dell’Università delle Isole Baleari e i suoi colleghi sono infatti riusciti a dimostrare che la vista di opere d’arte, di paesaggi piacevoli e, più in generale, di "cose belle" attiva, in maschi e femmine, zone diverse del cervello. La magnetoencefalografia, un esame che permette di rilevare l’attività elettrica delle sinapsi, ha rivelato che mentre nelle donne la vista di immagini "belle" attiva entrambe le aree parietali, nell’uomo accende solo il lato destro della corteccia. Secondo i ricercatori questa differenza è una conseguenza dell’evoluzione e risale all’era in cui uomini e scimmie iniziarono a differenziarsi.

7 settembre 2012

Dal cervello a moduli alla macchina cognitiva tuttofare

La psicologia evoluzionistica cerca da tempo di identificare gli elementi della cognizione umana che sono stati plasmati dalle leggi della selezione naturale. Da questa controversa disciplina, tuttavia, sono emersi nuovi interrogativi non solo su quali siano esattamente questi elementi, ma addirittura sul fatto che esistano davvero. 

Uno dei punti più dibattuti è se il cervello sia costituito da una serie di moduli simili ai mattoncini del LEGO, ciascuno dei quali è il risultato di adattamenti evolutivi che hanno prodotto strumenti mentali per attività diverse come correre dietro ai mammut, formare clan e comunicare informazioni sul cibo, il riparo o l'accoppiamento. Il concetto può essere espresso anche usando la metafora del coltellino svizzero: ogni modulo adattativo è equivalente a un cavatappi, a un tagliaunghie o a una serie di altri strumenti.
Un nuovo punto di vista rifiuta questa secca parcellizzazione del funzionamento della mente, sostenuta da psicologi come Leda Cosmides e John Tooby, e propone invece la metafora della mano: un unico strumento multiuso con cui è possibile toccare, picchiettare, spingere e tirare. Un’esposizione di questo nuovo modo di pensare è apparso sull'ultimo numero della rivista “Philosophical Transactions of the Royal Society of London B”.

La metafora della mano, sottolinea Cecilia Heyes di Oxford in un articolo introduttivo, allude alle diverse capacità di un arto in grado di “togliere le spine da un frutto rendendolo commestibile, oppure, in una danza tailandese, comunicare le più piccole sfumature di un’emozione. La mano umana svolge con identica facilità un’ampia gamma di compiti che la selezione naturale ha  'previsto' solo in parte”.

L’analogia della mano si può
trasferire alla neurofisiologia. Al livello più basilare, questa nuova nozione postula che il cervello non si sia sviluppato attraverso una dicotomia tra funzioni cerebrali superiori e i riflessi automatici, quelli che per esempio ci permettono di colpire al volo una palla da baseball. Questo si può osservare nella neocorteccia e nel cervelletto: il controllo esecutivo nella neocorteccia non è una sorta di programma esecutivo secondario sviluppatosi indipendentemente dalle funzioni sensomotorie del cervelletto. Spiega Heyes: “La coevoluzione di queste strutture non solo nei primati ma anche nelle specie ancora più antiche - in tutte le linee filogenetiche dei mammiferi - implica che, in termini evolutivi, la divisione tra intelligenza superiore e intelligenza sensomotoria, tra pensiero e azione, è artificiale”. In altre parole, si tratta di un solo grande sistema integrato che assume un’identità funzionale quando risponde all’ambiente, in virtù di una forma d’interazione che gli esperti definiscono “cognizione incorporata”.

Chi è legato a una visione più tradizionale afferma invece che i nostri antenati dell’Età della pietra svilupparono un insieme di capacità di pianificazione, denominato “astrazione concettuale” per disorientare e infine sopraffare la preda. I “revisionisti” controbattono sostenendo che questi - e altri - aspetti della cognizione esistevano almeno sei milioni di anni fa nell’antenato comune di scimpanzé ed esseri umani e perciò non erano semplici aggiunte destinate a compiti specifici apparse ben più tardi con l’Età della pietra. La linea evolutiva che ha portato all’invenzione dei computer permise di raffinare queste capacità per migliorare le interazioni sociali fino a un livello che non esiste negli scimpanzé, permettendo ai cacciatori-raccoglitori di agire come “un unico  organismo predatorio altamente competitivo”. Tuttavia, le linee evolutive degli scimpanzé e degli ominidi tendevano nella stessa direzione.

La nuova psicologia evoluzionistica attribuisce anche un nuovo ruolo all’evoluzione culturale, usando una terminologia influenzata dal mondo della genetica ed espressioni quali: “imitazione differenziale di singole varianti culturali”.

“Complessivamente questa visione emergente della cognizione sostituisce i “gadget cognitivi dedicati a uno scopo specifico”, soggetti a una limitata influenza da parte dell’ambiente, con macchine pensanti che utilizzano un insieme comune di computazioni per ogni genere di compito, dalla produzione di utensili alla mentalizzazione dei comportamenti che ne consente l’imitazione. Una nuova prospettiva che aiuta a spiegare in che modo riusciamo a risolvere i problemi tecnici e sociali che si presentano ogni giorno quando questa macchina cognitiva tuttofare incontra il mondo al di là delle pupille.  
Versione originale: scientificamerican.com

24 agosto 2012

La consapevolezza di sé


La consapevolezza di sé, ovvero l’autoriconoscimento della propria esistenza individuale distinta da quella degli altri, potrebbe non essere confinata in modo preciso in alcune aree cerebrali, come ritenuto finora, ma emergere dall’interazione di diversi network neuronali: è quanto sostiene sulle pagine della rivista PLOS ONE gruppo di ricerca dell’Università dell’Iowa guidato da David Rudrauf. La conclusione si è basata sull’osservazione di un unico paziente con estesi danni cerebrali che, nell’attuale modello, avrebbero dovuto compromettere inevitabilmente la sua autoconsapevolezza.
Considerata fin dalle speculazioni filosofiche più antiche una delle capacità più squisitamente umane, la consapevolezza di sé è stata profondamente analizzata anche negli studi di psicologia mediante test classici come il riconoscimento allo specchio. Il test, inoltre, ha allargato notevolmente lo spettro delle specie animali che ne sarebbero dotate almeno in un certo grado, poiché è stato superato non solo dalle scimmie antropomorfe ma anche da delfini, elefanti e polpi.

I neuroscienziati da parte loro hanno individuato il correlato neurologico dell’autoconsapevolezza in tre regioni principalmente: nella corteccia dell’insula, nella corteccia cingolata anteriore e nella corteccia prefrontale mediale.
Questa precisa localizzazione viene ora messa in discussione Questi risultati che tendono a localizzare la consapevolezza di sé in precise porzioni di alcune regioni cerebrali viene ora messa in discussione da Rudrauf e colleghi in virtù delle capacità residue di un unico soggetto, indicato come “paziente R”, un raro caso in cui tutte e tre le regioni cerebrali coinvolte sono state danneggiate.

“Secondo le nozioni finora accettate, quest’uomo avrebbe dovuto
essere una sorta di zombie”, spiega David Rudrauf, coautore dell’articolo apparso su PLoS ONE. “I nostri test dimostrano invece tutt’altro: conoscendolo, ci si rende conto immediatamente che l’autoconsapevolezza non gli manca, pur con le difficoltà di una persona con un notevole danno ai lobi temporali che, producendo gravi amnesie, inficia notevolmente il sé autobiografico”.
In primo luogo, il paziente R ha mostrato ripetutamente di riconoscersi quando si guardava allo specchio oppure quando osservava alcune fotografie realizzate in periodi diversi della sua vita. Oltre a ciò, dimostrava di percepire un’azione come conseguenza delle proprie intenzioni. Se invece gli venivano somministrati più specifici test di misura della personalità, egli mostrava una stabile capacità di pensare a se stesso e di auto-percepirsi, con una profonda abilità d’introspezione, ritenuta una delle sfumature più raffinate dell’autoconsapevolezza.
Il "paziente R" e la consapevolezza di sé
Scansioni in risonanza magnetica della testa del "paziente R" oggetto dello studio: risultano danneggiate le tre aree cerebrali responsabli dell'auto-consapevolezza (Department of Neurology, University of Iowa)
“Ciò che mostra chiaramente la nostra ricerca è che l’autoconsapevolezza corrisponde a processi neuronali che non possono essere localizzati in una o più regioni distinte del cervello”, ha concluso David Rudrauf. “Con tutta probabilità, l’autoconsapevolezza emerge da interazioni molto più distribuite tra network di diverse regioni cerebrali”.
Si ipotizza che a essere maggiormente coinvolti nel sopperire alle mancanze funzionali delle tre regioni cerebrali danneggiate siano il tronco encefalico, il talamo e la corteccia posteromediale.

8 giugno 2012

Il senso emotivo profondo delle carezze altrui

Nel nostro cervello, nulla è veramente oggettivo: perfino la nostra percezione del tocco di un'altra persona è plasmata da ciò che proviamo verso di essa. Lo ha dimostrato una ricerca che, analizzando le vie di elaborazione cerebrale dell’informazione tattile e dei suoi aspetti nella comunicazione sociale,  ha scoperto che  non ci sono due vie distinte per elaborare gli aspetti fisici ed emotivi del tatto. Una possibile ricaduta pratica della ricerca riguarda gli interventi di aiuto per le persone con autismo e le vittime di abusi sessuali e fisici.

Almeno per quanto riguarda le carezze, fatti e opinioni sono una cosa sola. Si potrebbe risassumere così il risultato di una ricerca publicata sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” (PNAS) che ha analizzato le vie di elaborazione cerebrale dell’informazione tattile e dei suoi aspetti nella comunicazione sociale. La carezza è infatti uno dei segnali sociali più potenti dal punto di vista emozionale.
"Intuitivamente, tutti noi crediamo che quando siamo toccati da qualcuno, per prima cosa percepiamo oggettivamente le proprietà fisiche del tocco: la sua velocità, la sua dolcezza, la rugosità della pelle, e che solo dopo, in un secondo momento, apprezziamo più o meno questo tocco in base di chi ci ha toccato", dice Valeria Gazzola, ricercatrice italiana già allieva di Giacomo Rizzolatti, attualmente all’University Medical Center di Groningen e prima firmataria del’articolo.
Invece le cose non stanno così. Gli esperimenti condotti dai ricercatori hanno infatti dimostrato che questa concezione a due fasi non è corretta, almeno per quanto riguarda la separazione tra le regioni cerebrali coinvolte: ciò che pensiamo di chi entra in contatto con noi distorce anche la rappresentazione apparentemente oggettiva di com’è il tocco sulla pelle. "Niente nel nostro cervello è veramente oggettivo", aggiunge Christian Keysers, che ha partecipato alla ricerca. "La nostra percezione è profondamente e pervasivamente plasmata da come sentiamo le cose che percepiamo".

Anche se vi sono dati che indicano il ruolo dell’insula – una struttura cerebrale nota per essere coinvolta nella gestione dell’emotività sociale - nell’elaborazione della componente affettiva della sensazione tattile, la nuova ricerca mostra che è già la corteccia somatosensoriale primaria - la regione cerebrale che decodifica le proprietà di base del tocco, per esempio la ruvidità di una superficie - a elaborare la gradevolezza o meno di un contatto sociale tattile come una carezza.
Per dimostrarlo i ricercatori hanno misurato il livello di attivazione cerebrale in 18 volontari eterosessuali maschi mentre venivano accarezzati su una gamba. I partecipanti non potevano vedere chi li accarezzava, ma guardavano un video che mostrava una donna attraente o un uomo che si chinava verso di loro per toccarli. In realtà, le carezze erano sempre date da una donna e con identiche modalità. I volontari hanno poi riferito di aver trovato piacevole l'esperienza quando ad accarezzarli era una donna e repulsiva quando pensavano che fosse stato un uomo.  Il dato rilevante, tuttavia, è che a questa differenza di valutazione dell’esperienza corrispondeva una maggiore attività nella corteccia somatosensoriale primaria quando erano convinti di essere stati toccati da una donna.
Una possibile ricaduta pratica della ricerca è l’elaborazione di protocolli per cercare di rimodellare le risposte sociali al contatto fisico nelle persone con autismo, lavorando sui primi percorsi sensoriali per aiutare i bambini autistici a rispondere più positivamente al tocco dei genitori, o per ristabilire risposte positive al tocco nelle vittime di abusi sessuali e fisici.

9 marzo 2012

SETTIMANA MONDIALE DEL CERVELLO

12-18 MARZO, IL TEMA DI QUESTA EDIZIONE:
MENS SANA IN CORPORE SANO.
Dal 12 al 18 Marzo 2012 verrà celebrata la Settimana Mondiale del Cervello, iniziativa promossa congiuntamente dalla "European Dana Alliance for the Brain" in Europa e dalla "Dana Alliance for Brain " negli Stati Uniti. In Italia, la Settimana del Cervello è promossa e organizzata dalla Sin - Societa' Italiana di Neurologia - che ha previsto una serie di incontri di informazione e sensibilizzazione su tutto il territorio nazionale: una campagna rivolta al grande pubblico, inclusi i più piccoli, oltre che al mondo scientifico e agli esperti del settore.
"Non si tratta di un evento formale- ha sottolineato il prof. Giancarlo Comi, Presidente della Sin- bensì, di un richiamo alla assoluta peculiarità dell'organo di cui ci occupiamo. Riteniamo che la Neurologia abbia un ruolo del tutto sottostimato nel nostro Paese e l'obiettivo della Settimana Mondiale del Cervello è proprio quello di fare in modo che tutta la comunità conosca e capisca cos'è la Neurologia e quali sono le patologie di cui si occupa: occorre definire in maniera univoca in cosa consiste il sapere neurologico, la base comune cui facciamo riferimento e quali ne siano le espressioni operative in ambito clinico".
L'INIZIATIVA - Tema portante di questa edizione "Mens sana in corpore sano": numerosi gli incontri ed i dibattiti dedicati all'evoluzione naturale del cervello attraverso le sue età biologiche; dalle sue potenzialità nel neonato, fino alla regressione negli stadi di età più avanzata o come conseguenze di patologie neurodegenerative. Allenare la mente oggi per proteggere il cervello di domani - auspicano gli esperti - in quanto l'idea di fondo è che allo stesso modo in cui è possibile preservare negli anni una buona forma fisica, è possibile, e necessario, adottare delle strategie per acquisire una altrettanto buona forma mentale. Il pensiero razionale, le emozioni, l'inconscio e la coscienza, le capacità cognitive, le percezioni della realtà e il modo in cui la interpretiamo: "Un unicum, governato dal nostro bagaglio genetico, dalle scintille elettriche che accendono i circuiti neuronali, dal cibo, dalla cultura e dall'ambiente", ha dichiarato l'autorevole genetista Edoardo Boncinelli.

NEL MONDO - Per maggiori informazioni e per consultare il calendario degli eventi:
www.neuro.it
La Società Italiana di Neurologia conta tra i suoi soci circa 3000 specialisti neurologi ed ha lo scopo istituzionale di promuovere in Italia gli studi neurologici, finalizzati allo sviluppo della ricerca scientifica, alla formazione, all'aggiornamento degli specialisti e al miglioramento della qualità professionale nell'assistenza alle persone con malattie del sistema nervoso.