Visualizzazione post con etichetta risonanza. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta risonanza. Mostra tutti i post

19 luglio 2013

Come funziona il cervello di un razzista

“Pensa che noia se fossimo tutti uguali” ci disse un giorno Luca Cavalli Sforza durante un’intervista. E siamo d’accordo. Il problema è quando le cose che ci rendono diversi gli uni dagli altri sfociano nella paura o addirittura nella mancanza di rispetto. Come nella vicenda Calderoli-Kyenge, con l'uscita triste di lui nel paragonare il ministro a un orango solo perché di origine congolese. Ed è un problema complesso e delicato che tiene occupati a tempo pieno numerosi studiosi di scienze sociali. Attraverso le neuroscienze, però, abbiamo oggi raggiunto un grado di consapevolezza sul funzionamento del nostro cervello tale da poter affrontare il problema del razzismo molto da vicino. E possiamo addirittura immaginare come intervenire per attenuare il più possibile quello che di negativo può suscitare il diverso. È questo il punto di partenza dell’intervento di Elizabeth Phelps, neuroscienziata della New York University e protagonista della conferenza Le neuroscienze del razzismo alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste, a cui ha preso parte proprio il ministro dell’Integrazione Cècile Kyenge

“Ci sono due vie con cui si manifestano i nostri atteggiamenti nei confronti di chi è diverso da noi”, ci spiega Phelps: “una esplicita, quella che dichiariamo apertamente, e una cosiddetta implicita, dove inconsciamente ci affidiamo a degli stereotipi anche se crediamo di comportarci in modo equo”. La ricercatrice, che lavora da anni nel campo delle emozioni e dei comportamenti sociali, sostiene che i modi in cui percepiamo alcune delle differenze connesse all' etnia o all’appartenenza a gruppi diversi sono rintracciabili nella via implicita, e sfuggono così al nostro controllo.

Quello che Phelps e il suo gruppo di ricerca studiano sono proprio gli atteggiamenti impliciti che abbiamo nei confronti delle diverse appartenenze etniche, e tutte le loro indagini si basano sull’osservazione diretta delle attività cerebrali di persone sollecitate a reagire a una serie di stimoli creati  ad hoc. “Abbiamo dimostrato che ci sono circuiti cerebrali direttamente coinvolti negli approcci verso persone che fanno parte di un gruppo etnico diverso”, racconta la scienziata: “e lo studio di questi circuiti potrebbe rivelarsi un terreno d’indagine nuovo ed estremamente fertile per la comprensione delle dinamiche sociali”. I circuiti a cui Phelps si riferisce sono quelli connessi all’ amigdala, una parte del cervello notoriamente coinvolta nella gestione delle emozioni e in particolare della paura. Le neuroscienze quindi possono rivestire un ruolo decisivo per svelare quali siano le fondamenta delle attitudini e dei comportamenti razziali. Ma non solo: seguendo questa pista potremmo addirittura immaginare di usarle per pilotare questi circuiti, per esempio tentando di placare le emozioni negative inconsapevoli suscitate dalla diversità etnica.

La tecnologia su cui si basano gli studi di Phelps è la risonanza magnetica funzionale, una macchina che permette di visualizzare i pattern di attività cerebrale di un individuo come un vero e proprio scanner. “Mostriamo al soggetto in esame fotografie di persone appartenenti a gruppi etnici diversi”, racconta: “e osserviamo come risponde il suo cervello sullo schermo di un computer”. Si tratta di una tecnica impiegata molto spesso nell’ambito delle neuroscienze e che rende possibile tarare lo strumento in base al tipo di informazione che si vuole ottenere: “Possiamo seguire le risposte neurali misurando come varia il flusso di sangue nelle diverse aree del cervello, per esempio. Ma non solo: possiamo riferirci a numerosi altri parametri” precisa la ricercatrice. In definitiva, come quando cambiamo il filtro di un’immagine allo scopo di far risaltare di volta in volta i dettagli che più ci interessano.

Per poter intervenire però sul razzismo, le evidenze delle neuroscienze da sole non bastano. Certo, aiutano a capire come funziona la psicologia delle persone, danno delle informazioni in più sulle origini del comportamento, ma, come tiene a sottolineare Phelps “studiare il cervello non dà più informazioni rispetto che studiare il comportamento. La soluzione è che queste due attività vadano avanti insieme, mano nella mano”. Anche perché le attitudini verso le persone etnicamente diverse da noi non sono immobili, sono bensì  malleabili, come tutto ciò che riguarda il nostro cervello, col trascorrere del tempo e con l’esperienza. “E soprattutto”, conclude la scienziata: “con l’apprendimento e la cultura.

Alla domanda su quale meccanismo cerebrale possa essere scattato in Calderoli per portarlo ad assimilare una donna di colore a un orango, Phelps risponde: “Non posso dare spiegazioni. È semplicemente inappropriato”. Nel dubbio, aggiungiamo noi, anche qui una bella dose di cultura non guasterebbe. 

24 agosto 2012

La consapevolezza di sé


La consapevolezza di sé, ovvero l’autoriconoscimento della propria esistenza individuale distinta da quella degli altri, potrebbe non essere confinata in modo preciso in alcune aree cerebrali, come ritenuto finora, ma emergere dall’interazione di diversi network neuronali: è quanto sostiene sulle pagine della rivista PLOS ONE gruppo di ricerca dell’Università dell’Iowa guidato da David Rudrauf. La conclusione si è basata sull’osservazione di un unico paziente con estesi danni cerebrali che, nell’attuale modello, avrebbero dovuto compromettere inevitabilmente la sua autoconsapevolezza.
Considerata fin dalle speculazioni filosofiche più antiche una delle capacità più squisitamente umane, la consapevolezza di sé è stata profondamente analizzata anche negli studi di psicologia mediante test classici come il riconoscimento allo specchio. Il test, inoltre, ha allargato notevolmente lo spettro delle specie animali che ne sarebbero dotate almeno in un certo grado, poiché è stato superato non solo dalle scimmie antropomorfe ma anche da delfini, elefanti e polpi.

I neuroscienziati da parte loro hanno individuato il correlato neurologico dell’autoconsapevolezza in tre regioni principalmente: nella corteccia dell’insula, nella corteccia cingolata anteriore e nella corteccia prefrontale mediale.
Questa precisa localizzazione viene ora messa in discussione Questi risultati che tendono a localizzare la consapevolezza di sé in precise porzioni di alcune regioni cerebrali viene ora messa in discussione da Rudrauf e colleghi in virtù delle capacità residue di un unico soggetto, indicato come “paziente R”, un raro caso in cui tutte e tre le regioni cerebrali coinvolte sono state danneggiate.

“Secondo le nozioni finora accettate, quest’uomo avrebbe dovuto
essere una sorta di zombie”, spiega David Rudrauf, coautore dell’articolo apparso su PLoS ONE. “I nostri test dimostrano invece tutt’altro: conoscendolo, ci si rende conto immediatamente che l’autoconsapevolezza non gli manca, pur con le difficoltà di una persona con un notevole danno ai lobi temporali che, producendo gravi amnesie, inficia notevolmente il sé autobiografico”.
In primo luogo, il paziente R ha mostrato ripetutamente di riconoscersi quando si guardava allo specchio oppure quando osservava alcune fotografie realizzate in periodi diversi della sua vita. Oltre a ciò, dimostrava di percepire un’azione come conseguenza delle proprie intenzioni. Se invece gli venivano somministrati più specifici test di misura della personalità, egli mostrava una stabile capacità di pensare a se stesso e di auto-percepirsi, con una profonda abilità d’introspezione, ritenuta una delle sfumature più raffinate dell’autoconsapevolezza.
Il "paziente R" e la consapevolezza di sé
Scansioni in risonanza magnetica della testa del "paziente R" oggetto dello studio: risultano danneggiate le tre aree cerebrali responsabli dell'auto-consapevolezza (Department of Neurology, University of Iowa)
“Ciò che mostra chiaramente la nostra ricerca è che l’autoconsapevolezza corrisponde a processi neuronali che non possono essere localizzati in una o più regioni distinte del cervello”, ha concluso David Rudrauf. “Con tutta probabilità, l’autoconsapevolezza emerge da interazioni molto più distribuite tra network di diverse regioni cerebrali”.
Si ipotizza che a essere maggiormente coinvolti nel sopperire alle mancanze funzionali delle tre regioni cerebrali danneggiate siano il tronco encefalico, il talamo e la corteccia posteromediale.

19 agosto 2012

Il "segreto" dell'intelligenza

Il dieci per cento delle differenze individuali di intelligenza può essere spiegato dall’efficienza e dallo sviluppo delle vie neurali che collegano la corteccia prefrontale laterale sinistra al resto del cervello. A stabilirlo è stata una ricerca condotta da neuroscienziati della Washington University a St. Louis, pubblicata sul “Journal of Neuroscience”, i cui risultati indicano che i livelli di connettività globale del cervello con una parte della corteccia prefrontale laterale sinistra possono servire da forte predittore sia dell’intelligenza fluida sia delle capacità di controllo cognitivo.

"La nostra ricerca dimostra che la connettività con una specifica parte della corteccia prefrontale può prevedere quanto qualcuno è intelligente", suggerisce Michael W. Cole, primo firmatario dell’articolo.
I risultati si basano sull'analisi di immagini di risonanza magnetica funzionale del cervello riprese sia quando i partecipanti allo studio riposavano passivamente sia quando erano impegnati in una serie di compiti mentali associati a quella che gli psicologi chiamano “intelligenza fluida”, come indicare se l'immagine visualizzata è la stessa vista tre immagini prima.

L’idea che il livello di connettività fra aree cerebrali sia decisivo nel determinare l’intelligenza non è nuova, ma questo studio è il primo a fornire prove sperimentali convincenti che una specifica area dà un contributo unico e potente all'elaborazione cognitiva.
"Una parte di ciò che significa essere intelligenti è avere una corteccia prefrontale laterale che esegue bene il suo lavoro, e questo include la capacità di comunicare efficacemente con il resto del cervello",
spiega il coautore dello studio Todd Braver.

Mentre altre regioni del cervello danno un contributo specifico al processo cognitivo, la corteccia prefrontale laterale aiuta a coordinare questi processi e a mantenere la concentrazione sul compito con cui si è alle prese, più o meno – osservano i ricercatori - allo stesso modo in cui un direttore d’orchestra controlla in tempo reale le prestazioni degli orchestrali.
Questa ampia regione prefrontale cerebrale sarebbe cioè una sorta di "snodo flessibile" per il monitoraggio e il controllo di altre regioni del cervello vocate a comiti cognitivi più specifici. "Ci sono prove che la corteccia prefrontale laterale sia la regione del cervello che 'ricorda', ossia conserva, gli obiettivi e le istruzioni che consentono di continuare a fare ciò che è necessario quando si lavora a un compito", dice Cole. "Quindi ha senso che questa regione, dovendo comunicare in modo efficace con le altre regioni (quelle 'esecutrici'), sia coinvolta nello svolgimento intelligente dei compiti."

2 novembre 2010

STUDIO USA

La risonanza riconosce il cervello di chi si finge diverso da come è
Individuato il "trucco" cui fa ricorso la mente per manipolare la percezione che gli altri hanno di noi


D'ora in avanti sarà più difficile ingannare gli altri. È stato scoperto il "trucco" cui fa ricorso il cervello per manipolare la percezione che gli altri hanno di noi. È il risultato di uno studio pubblicato sulla rivista dell'Accademia Americana delle Scienze PNAS dal gruppo di Read Montague dello Human Neuroimaging Laboratory presso il Baylor College of Medicine di Houston. La risonanza magnetica funzionale è una tecnica sempre più usata per leggere nel nostro cervello e capire quello che pensiamo nel profondo: la tendenza è quella di usarla nei campi più disparati, dal neuro-marketing per creare prodotti perfetti "acchiappa-consumatori", alla neuro-architettura che progetta spazi e ambienti leggendo nel pensiero cosa è meglio per noi, alla neuro-cinematica che studia i trucchi per produrre il film che avrà più successo ai botteghini fino alla neuro-giustizia che cerca la verità nella mente dell'imputato.
L'ESPERIMENTO - Gli scienziati Usa hanno quindi voluto vedere se con la risonanza si potesse riconoscere una capacità cruciale per vivere in società e relazionarci con gli altri, ovvero la capacità di monitorare e calibrare secondo le nostre esigenze (e obiettivi) l'immagine che gli altri hanno di noi. Per farlo gli esperti hanno coinvolto un gruppo di persone in un gioco di economia che consisteva nel vendere e comprare degli oggetti mediante contrattazione. Durante 60 round del gioco, il cervello dei partecipanti è stato "spiato" con la risonanza magnetica funzionale e in quello di coloro che imbrogliano l'avversario, fingendosi onesti, hanno scovato l'attivazione di particolari aree neurali importanti per prendere decisioni e portare a termine compiti difficili, come la corteccia prefrontale dorsolaterale destra. In pratica, quando l'obiettivo è quello di imbrogliare gli altri mentre i nostri comportamenti simulano quelli di una persona onesta, il cervello imbroglione mostra un "volto" ben riconoscibile alla risonanza magnetica. Gli esperti hanno quindi dimostrato che con la risonanza è possibile distinguere due aspetti del cervello, quello onesto e quello che si finge tale per dare agli altri un'immagine finta di sé. (Fonte: Ansa)